Il d.lgs. 276/2003 ha introdotto nuovi modelli contrattuali rispondenti alle esigenze della società.
Le aziende non sono più disposte ad assumere a tempo pieno ed indeterminato.
Per questo il legislatore è intervenuto dando attuazione alle legge Biagi con il d.lgs. 276 del 2003. l'esigenza era di trovare nuovi modelli contrattuali per contrastare il lavoro sommerso e dare un incentivo al mercato del lavoro.
Il lavoro intermittente nasce negli Stati Uniti, e si diffonde in Europa soprattutto in Olanda e Belgio dove si rivolge a lavoratori molto specializzati. In Italia l'applicazione sarà diversa. Il primo recepimento avviene attraverso le parti sociali.
Introdotto nel 2003 dal 276 viene soppresso nel 2007 con la 247 e viene reintrodotto nuovamente nel 2008 con il 131.
questa tipologia è di carattere solo subordinata. Il lavoratore si obbliga ad eseguire la prestazione solo nel caso in cui il datore dovesse avere l'esigenza. C'è una forte discontinuità per il lavoratore.
È possibile usare tale contratto solo per determinate ipotesi previste dalla contrattazione collettiva, solo in determinati periodi, nel fine settimana e nelle vacanze. Inoltre si può sempre stipulare per i minori di 25 e i maggior idi 45. la caratteristica è la discontinuità e si discosta da altre tipologie simili quali al somministrazione in cui ci si rivolge a un'impresa e non al singolo(3 soggetti).
Si differenzia anche dal lavoro a tempo parziale perché il lavoratore già sa quanto lavorerà quando viene assunto.
Altra caratteristica è che non è previsto un obbligo del lavoratore di rispondere alla chiamata del datore di lavoratore in caso di necessità. L'obbligo può essere aggiunto dai contraenti e il lavoratore può obbligarsi a rispondere in qualsiasi caso alla chiamata. In tale caso al lavoratore spetta l'indennità di disponibilità. La legge non prevede l'importo che è determinato dai contratti collettivi. Il livello minimo è determinato da un decreto del ministero del lavoro.
Solo quando c'è l'indennità di disponibilità non si ha più solo scambio tra retribuzione e lavoro ma si aggiungerà anche disponibilità e indennità.
Il lavoratore nel caso deve avvertire tempestivamente nel caso in cui non possa rispondere alla chiamata qualora abbia pattuito la clausola di disponibilità. In tale periodo l'indennità è sospesa.
Nel caso in cui non avverta, l'indennità è sospesa per 15 giorni dalla legge.
Nel caso in cui il datore chiami e lui non risponda il datore può recedere dal contratto, può farsi restituire l'indennità e può chiedere un risarcimento del danno(cosi chiamato dalla legge)già determinato dal contratto.
I requisiti di tale contratto sono la forma scritta ad probationem. Il contratto deve contenere la causale, il caso previsto dal contratto collettivo o deve riferirsi a uno dei periodi predeterminati o deve contenere l'indicazione dell'età del lavoratore. Deve poi contenere la retribuzione, il luogo di lavoro, la clausola eventuale di disponibilità, le condizioni di sicurezza, e i modi in cui il lavoratore può essere chiamato. Il lavoratore deve essere chiamato al minimo un giorno prima.
Tale contratto non può essere stipulato per sostituire i lavoratori in sciopero. È vietato per i datori di lavoro che hanno effettuato licenziamenti collettivi nei 6 mesi precedenti per le stesse mansioni.
È vietato infine per i datori di lavoro che non hanno effettuato la valutazione dei rischi.
La valutazione dei rischi è determinata dal 626 del 94 per cui si devono mettere nero su bianco i rischi che corrono i lavoratori e le misure adottate per preservare l'integrità fisica e morale del lavoratore.
Nel caso in cui sia stipulato un lavoro ad intermittenza senza giustificazioni la legge non prevede le sanzioni. Si ripropone lo stesso discorso del contratto a tempo determinato.
La maggioranza della dottrina e giurisprudenza ritengono che in caso di invalidità si ricade nello schema classico della trasformazione ex tunc in un contratto a tempo pieno e indeterminato.
Altra parte della dottrina e giurisprudenza minoritaria ritengono in base all'art.1419c.c. che dall'invalidità della clausola derivi la nullità del contratto, per cui il lavoratore non avrebbe tutele. Ciò nel caso in cui i contraenti non avrebbero stipulato il contratto senza tale clausola.
Tale teoria esclude dunque la trasformazione. Si tratta tuttavia di una teoria minoritaria.
Contratto di lavoro ripartito. Nasce in America per esigenze di flessibilizzazione e viene introdotto anch'esso in Italia dal d.lgs. 276. si applica in Europa contro le crisi aziendali.
Secondo l'art.41 si tratta di uno speciale contratto di lavoro per cui due lavoratori si obbligano in solido per un'unica prestazione lavorativa. I due lavoratori hanno assoluta libertà di spartirsi e dividersi il lavoro che viene gestito in assoluta autonomia. L'eventuale inadempimento di uno dei due lavoratori non libera l'altro lavoratore.
La retribuzione spetta in base alla prestazione effettivamente resa.
La solidarietà si ha solo per i fini dell'adempimento ma non per gli inadempimenti disciplinari.
Questo tipo di contratto può estinguersi per impossibilità sopravvenuta di entrambi i contraenti e per licenziamento e dimissioni di uno dei due lavoratori. Nel caso in cui una delle parti venga meno il contratto viene meno. La parte ancora disposta e il datore possono effettuare una novazione del contratto ma in tale caso si passerebbe a un normale contratto di lavoro a tempo determinato.
I requisiti del contratto sono la forma scritta ad probationem in cui vanno indicate caratteristiche, tempo, modalità, retribuzione e anche la previsione circa la spartizione del lavoro(una divisione di massima che può essere modificata). Il datore va informato settimanalmente circa chi ha effettivamente lavorato.
Vige il principio di non discriminazione per cui a parità di lavoro essi devono avere lo stesso trattamento che hanno i lavoratori a tempo pieno e indeterminato(vale anche per il lavoro a intermittenza).
Il lavoro a tempo parziale è stato introdotto nella metà degli anni 80 con discipline non organiche. La prima disciplina vera e propria si è avuta nel 2000, per poi essere riformata con il 276 del 2003.
si tratta di un contratto molto diffuso e rappresenta il cuore della flessibilità. La legge prevede un orario di lavoro standard pari a 40 ore settimanali. Il contratto sarà part time quando questo prevederà meno di 40 ore.
Viene incontro sia a esigenze personali che ad esigenze di carattere economico. Ci sono tre tipi di part time: un lavoro a tempo parziale orizzontale, per cui il lavoratore usa tutti i giorni previsti normalmente ma per un tempo inferiore alle 40 ore settimanali. Il part time verticale prevede un orario a tempo pieno per solo alcuni giorni a settimana. Terzo schema contrattuale è quello misto in cui si intrecciano le due discipline dell'orizzontale e verticale.
I requisiti sono la forma scritta in cui va indicata la durata della prestazione e la collocazione temporale delle ore. In mancanza di forma scritta il lavoratore può ottenere la declaratoria di sussistenza per avere un contratto a tempo pieno. Se il contratto omette solo la collocazione delle ore non si arriva alla declaratoria di sussistenza del contratto a tempo pieno e quindi il giudice si limiterà a dire quale sarà l'effettivo periodo di lavoro, rivolgendosi alle parti e soprattutto al lavoratore.
È possibile stipulare clausole elastiche e flessibili che modifichino la collocazione e l'orario di lavoro, spostando e allungando gli orari. Ove manchi il consenso del lavoratore non è possibile licenziarlo solo perché si è rifiutato a convenire tali clausole. Si possono effettuare anche prestazioni di straordinario con il consenso del lavoratore.
Egli ha diritto nel caso anche ad una maggiorazione rispetto alla retribuzione.
È possibile convertire il contratto da tempo pieno a tempo parziale. Per fare ciò è necessario il consenso del lavoratore e il legislatore ha previsto che tale consenso sia sicuro e informato. Questo deve essere dato per iscritto e deve essere anche confermato dal lavoratore dinanzi alla direzione provinciale del lavoro.
Il lavoratore ha diritto di mutare dal tempo pieno al parziale nel caso in cui le proprie condizioni di salute lo obblighino in tal senso.
Anche per questo contratto vale il principio di non discriminazione per cui i lavoratori part time devono avere lo stesso trattamento retributivo ed economico (in proporzione) di quanti lavorano a tempo indeterminato.
martedì 24 maggio 2011
Nuovi modelli contrattuali
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La tutela del lavoratore a fronte di un licenziamento illegittimo
Il licenziamento deve essere impugnato entro 60 giorni ed entro 270 giorni il lavoratore deve fare ricorso, novità introdotta dal collegato lavoro del novembre 2010.
Il lavoratore propone ricorso, il giudice lo accoglie dichiarando illegittimo il licenziamento e per il lavoratore può scattare la tutela reale o obbligatoria. La tutela reale è detta forte e l'obbligatoria è detta debole.
La tutela obbligatoria è stata introdotta con la l. 604 del 1966, legge che ha introdotto anche la necessità di un licenziamento giustificato, mentre prima c'era solo il recesso ad nutum. Tale norma ha introdotto la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo o oggettivo. L'art.8 dice cosa succede quando un licenziamento non sia giustificato. È necessario reintegrare entro 3 giorni o risarcire il lavoratore.
Questa norma ci dice che a fronte di un licenziamento ingiustificato il datore può riassumere o pagare un'indennità al lavoratore, si tratta di un'obbligazione alternativa per il datore.
La maggior parte dei datori di lavoro opteranno per il pagamento dell'indennità monetizzando la condotta illegittima, per questo la tute obbligatoria è detta tutela debole.
Al contrario nella tutela reale si permette al lavoratore di tornare sul posto di lavoro.
La riassunzione significa instaurare un nuovo rapporto dopo il licenziamento illegittimo.
Invece la reintegrazione non determina un'interruzione del rapporto. È come se il rapporto fosse stato continuativo.
Se il lavoratore rifiuta di essere riassunto egli ha comunque diritto all'indennità già stabilita dal giudice. L'indennità è stabilita all'interno di una forbice dallo stesso art.8. questa va dalle 2,5 alle 6 mensilità. Il giudice determina l'indennità in base alla dimensione dell'impresa, il numero di dipendenti, l'anzianità del lavoratore, le condizioni economiche.
Saranno le parti stesse ad allegare l'anzianità di servizio e le altre caratteristiche determinanti.
Quando il lavoratore ha un'anzianità superiore a 10 anni può avere un'indennità fino a 10 mensilità. Se superiore a 20 fino a 14 mensilità. Solo però se è un'azienda con più di 15 dipendenti.
La tutela reale viene prevista dall'art.18 della l.n.300 del 1970, successiva alla disciplina tutela obbligatoria.
Essa prevede la possibilità a fronte di un licenziamento ingiustificato o nullo, l'obbligo per il datore di lavoro di reintegrare il lavoratore e di risarcire il danno. Non è un'obbligazione alternativa.
La reintegrazione si distingue dalla riassunzione perché prevede che il rapporto non si sia mai interrotto per cui ha valore ex tunc. Il lavoratore non deve offrire dopo la sentenza le prestazioni di lavoro ma deve attendere l'invito del datore di lavoro. Entro 30 giorni il lavoratore deve rientrare in servizio altrimenti si estingue il rapporto. Il lavoratore deve essere reintegrato nello stesso posto di lavoro, fatto salvo lo ius variandi del datore di lavoro.
Il lavoratore nel momento in cui viene reintegrato deve restituire l'eventuale indennità sostitutiva e il TFR che gli è stata data.
Il limite di tale tutela è che la reintegrazione presuppone un fare infungibile non coercibile.
Il datore ha dunque il dovere di esercitare i propri poteri. Non si può costringere il datore a fare, a reintegrare. Tuttavia egli deve pagare il lavoratore a casa come se stesse lavorando.
Nel caso di non ottemperanza dell'ordine del giudice da parte del datore, nel momento in cui viene riformata la sentenza di primo grado si è posto il problema della ripetibilità o meno delle somme percepite dal lavoratore. Queste somme sono effettivamente ripetibili secondo la giurisprudenza.
Per quanto riguarda l'obbligazione di risarcimento del danno, si prevede che questo deve essere commisurato a tutte le obbligazioni di fatto tra il licenziamento e la reintegrazione. Tale risarcimento non può essere inferiore alle 5 mensilità.
Tali 5 mensilità sono una sorta di penale forfettaria, non commisurata al danno. Il lavoratore non deve provare di aver subito il danno, ma deve solo provare la commisurazione del danno.
Proprio perché si tratta di risarcimento del danno si possono detrarre l'aliunde perceptum, ciò che il lavoratore ha guadagnato grazie ad altre attività lavorative intrattenuta medio tempore, nelle more del giudizio. Ciò per il principio della compensatio lucri cum danno.
Il datore può anche ottenere materiale probatorio dall'INPS per detrarre la somma dal danno.
Non si sottrae l'aliunde compatibile, che avrebbe potuto percepire anche restando presso il datore che lo ha illegittimamente licenziato.
Può essere detratto anche l'aliunde percipiendum, non solo le retribuzioni effettivamente percepite, ma anche tutto ciò che il lavoratore avrebbe potuto percepire usando l'ordinaria diligenza. Non si vuole premiare il lavoratore che è rimasto inerte. È necessario però che il datore di lavoro dimostri.
L'aliundem perceptum è comunque un'eccezione che non può essere rilevata d'ufficio.
Particolare risarcimento stabilito sempre dall'art.18,9comma per i sindacalisti licenziati illegittimamente. Essi hanno una tutela più incisiva, e nell'ipotesi di licenziamento il datore che non ottempera all'ordinanza di reintegro del giudice è tenuto al pagamento giornaliero di una somma da destinare al fondo pensioni pari alla retribuzione del lavoratore.
L'art.18,5comma prevede un diritto di opzione per il lavoratore che non vuole tornare al lavoro. Egli può chiedere entro 30 giorni dal deposito della sentenza un'indennità pari a 15 mensilità.
L'indennità è in luogo della reintegrazione ma non si sostituisce al risarcimento, dal giorno dell'illegittimo licenziamento a quello della sentenza(o reintegro).
L'ambito di applicazione delle due tutele è diverso.
L'art18 dello statuto e l'art.8 della 604 sono state modificate con la legge 108 del 1990.
prima di tale legge la tutela reale ai sensi dell.art18 poteva applicarsi solo a imprenditori con più di 15 dipendenti o 5 dipendenti in caso di imprese agricole. Per quanto riguarda la tutela obbligatoria per quelli con più di 35 dipendenti se non applicabile la tutela reale. Rimaneva una grande area per il licenziamento libero per tutte le piccole imprese che rimaneva con i lavoratori che avevano raggiunto l'età di pensionamento.
Dopo la riforma la tutela obbligatoria viene estesa a tutti a meno che non fosse applicabile la tutela reale. Anche le piccole imprese avevano tale tutela.
L'onere della prova non era a carico del datore. Il lavoratore deve provare che gli si renda applicabile la tutela reale. Al datore di lavoro spetta invece di provare la possibilità di fare un licenziamento libero.
La formula del 108 dice che la tutela reale è applicabile a tutti i datori con più di 15 dipendenti nella stessa attività produttiva o nello stesso comune(per evitare un'elusione da parte del datore) o 5 se imprese agricole o più di 60 dipendenti nell'ambito del territorio nazionale.
Per il computo bisogna considerare tutti i lavoratori subordinati e vengono esclusi gli autonomi e parasubordinati. Non verranno cumulati i contrattisti a termine che sostituiscono il lavoratore assente, gli apprendisti. Vengono invece computati i contrattisti con contratto di formazione.
Anche quelli con contratto di somministrazione sono nel computo. Vengono esclusi i lavoratori a domicilio, ma sono inclusi i lavoratori distaccati. I lavoratori a tempo determinato vanno inclusi limitatamente alle ore che prestano all'interno dell'impresa.
La tutela reale nonostante l'impresa raggiunga le dimensioni è esclusa per le organizzazioni di tendenza, organizzazioni che perseguono un fine ideologico. Il legislatore ha alleggerito la responsabilità di tale tipo di datore di lavoro, alla luce del fatto che si tratta un'attività prestata senza fini di lucro.
Qualora il lavoratore svolgesse mansioni neutre è stata esclusa la tutela reale, a prescindere dallo svolgimento di attività connesse al fine ideologico o meno.
La tutela reale si applica però sempre quando si tratta di licenziamento discriminatorio.
C'è un ambito residuo in cui la tutela reale dunque si applica sempre. Si chiama tutela reale di diritto comune, quando il licenziamento non ha nessun effetto ed è dunque nullo.
Quando il datore ha presso di sé anche un numero esiguo di lavoratori, vi sarà sempre e comunque l'applicazione della tutela reale.
Rimane un'area in cui la tutela reale può non applicarsi, in cui il datore può applicare il libero recesso. Tale area comprende i dirigenti (e non gli pseudo dirigenti) perché si tratta di una figura particolare che ha un rapporto di fiducia stretto con l'imprenditore. Anche nel caso del dirigente è stata coniata dalla giurisprudenza la necessità di giustificatezza. Per cui anche se non è necessaria la giusta causa o giustificato motivo il licenziamento deve essere comunque giustificato, si ha comunque non il reintegro ma un'indennità supplementare.
Altri lavoratori che rientrano nell'area della libera recidibilità sono i lavoratori in prova. La legge prevede un periodo minimo di 6 mesi, in cui il datore può licenziare anche senza motivo.
Sono anche esclusi i lavoratori domestici in quanto si tratta di rapporti in cui la fiducia è elemento centrale. Per cui si da possibilità al datore di licenziare.
A parte gli atleti professionisti è bene ricordare i lavoratori che hanno raggiunto l'età pensionabile. Questo perché può favorire il turn over con le nuove generazioni.
Il lavoratore propone ricorso, il giudice lo accoglie dichiarando illegittimo il licenziamento e per il lavoratore può scattare la tutela reale o obbligatoria. La tutela reale è detta forte e l'obbligatoria è detta debole.
La tutela obbligatoria è stata introdotta con la l. 604 del 1966, legge che ha introdotto anche la necessità di un licenziamento giustificato, mentre prima c'era solo il recesso ad nutum. Tale norma ha introdotto la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo o oggettivo. L'art.8 dice cosa succede quando un licenziamento non sia giustificato. È necessario reintegrare entro 3 giorni o risarcire il lavoratore.
Questa norma ci dice che a fronte di un licenziamento ingiustificato il datore può riassumere o pagare un'indennità al lavoratore, si tratta di un'obbligazione alternativa per il datore.
La maggior parte dei datori di lavoro opteranno per il pagamento dell'indennità monetizzando la condotta illegittima, per questo la tute obbligatoria è detta tutela debole.
Al contrario nella tutela reale si permette al lavoratore di tornare sul posto di lavoro.
La riassunzione significa instaurare un nuovo rapporto dopo il licenziamento illegittimo.
Invece la reintegrazione non determina un'interruzione del rapporto. È come se il rapporto fosse stato continuativo.
Se il lavoratore rifiuta di essere riassunto egli ha comunque diritto all'indennità già stabilita dal giudice. L'indennità è stabilita all'interno di una forbice dallo stesso art.8. questa va dalle 2,5 alle 6 mensilità. Il giudice determina l'indennità in base alla dimensione dell'impresa, il numero di dipendenti, l'anzianità del lavoratore, le condizioni economiche.
Saranno le parti stesse ad allegare l'anzianità di servizio e le altre caratteristiche determinanti.
Quando il lavoratore ha un'anzianità superiore a 10 anni può avere un'indennità fino a 10 mensilità. Se superiore a 20 fino a 14 mensilità. Solo però se è un'azienda con più di 15 dipendenti.
La tutela reale viene prevista dall'art.18 della l.n.300 del 1970, successiva alla disciplina tutela obbligatoria.
Essa prevede la possibilità a fronte di un licenziamento ingiustificato o nullo, l'obbligo per il datore di lavoro di reintegrare il lavoratore e di risarcire il danno. Non è un'obbligazione alternativa.
La reintegrazione si distingue dalla riassunzione perché prevede che il rapporto non si sia mai interrotto per cui ha valore ex tunc. Il lavoratore non deve offrire dopo la sentenza le prestazioni di lavoro ma deve attendere l'invito del datore di lavoro. Entro 30 giorni il lavoratore deve rientrare in servizio altrimenti si estingue il rapporto. Il lavoratore deve essere reintegrato nello stesso posto di lavoro, fatto salvo lo ius variandi del datore di lavoro.
Il lavoratore nel momento in cui viene reintegrato deve restituire l'eventuale indennità sostitutiva e il TFR che gli è stata data.
Il limite di tale tutela è che la reintegrazione presuppone un fare infungibile non coercibile.
Il datore ha dunque il dovere di esercitare i propri poteri. Non si può costringere il datore a fare, a reintegrare. Tuttavia egli deve pagare il lavoratore a casa come se stesse lavorando.
Nel caso di non ottemperanza dell'ordine del giudice da parte del datore, nel momento in cui viene riformata la sentenza di primo grado si è posto il problema della ripetibilità o meno delle somme percepite dal lavoratore. Queste somme sono effettivamente ripetibili secondo la giurisprudenza.
Per quanto riguarda l'obbligazione di risarcimento del danno, si prevede che questo deve essere commisurato a tutte le obbligazioni di fatto tra il licenziamento e la reintegrazione. Tale risarcimento non può essere inferiore alle 5 mensilità.
Tali 5 mensilità sono una sorta di penale forfettaria, non commisurata al danno. Il lavoratore non deve provare di aver subito il danno, ma deve solo provare la commisurazione del danno.
Proprio perché si tratta di risarcimento del danno si possono detrarre l'aliunde perceptum, ciò che il lavoratore ha guadagnato grazie ad altre attività lavorative intrattenuta medio tempore, nelle more del giudizio. Ciò per il principio della compensatio lucri cum danno.
Il datore può anche ottenere materiale probatorio dall'INPS per detrarre la somma dal danno.
Non si sottrae l'aliunde compatibile, che avrebbe potuto percepire anche restando presso il datore che lo ha illegittimamente licenziato.
Può essere detratto anche l'aliunde percipiendum, non solo le retribuzioni effettivamente percepite, ma anche tutto ciò che il lavoratore avrebbe potuto percepire usando l'ordinaria diligenza. Non si vuole premiare il lavoratore che è rimasto inerte. È necessario però che il datore di lavoro dimostri.
L'aliundem perceptum è comunque un'eccezione che non può essere rilevata d'ufficio.
Particolare risarcimento stabilito sempre dall'art.18,9comma per i sindacalisti licenziati illegittimamente. Essi hanno una tutela più incisiva, e nell'ipotesi di licenziamento il datore che non ottempera all'ordinanza di reintegro del giudice è tenuto al pagamento giornaliero di una somma da destinare al fondo pensioni pari alla retribuzione del lavoratore.
L'art.18,5comma prevede un diritto di opzione per il lavoratore che non vuole tornare al lavoro. Egli può chiedere entro 30 giorni dal deposito della sentenza un'indennità pari a 15 mensilità.
L'indennità è in luogo della reintegrazione ma non si sostituisce al risarcimento, dal giorno dell'illegittimo licenziamento a quello della sentenza(o reintegro).
L'ambito di applicazione delle due tutele è diverso.
L'art18 dello statuto e l'art.8 della 604 sono state modificate con la legge 108 del 1990.
prima di tale legge la tutela reale ai sensi dell.art18 poteva applicarsi solo a imprenditori con più di 15 dipendenti o 5 dipendenti in caso di imprese agricole. Per quanto riguarda la tutela obbligatoria per quelli con più di 35 dipendenti se non applicabile la tutela reale. Rimaneva una grande area per il licenziamento libero per tutte le piccole imprese che rimaneva con i lavoratori che avevano raggiunto l'età di pensionamento.
Dopo la riforma la tutela obbligatoria viene estesa a tutti a meno che non fosse applicabile la tutela reale. Anche le piccole imprese avevano tale tutela.
L'onere della prova non era a carico del datore. Il lavoratore deve provare che gli si renda applicabile la tutela reale. Al datore di lavoro spetta invece di provare la possibilità di fare un licenziamento libero.
La formula del 108 dice che la tutela reale è applicabile a tutti i datori con più di 15 dipendenti nella stessa attività produttiva o nello stesso comune(per evitare un'elusione da parte del datore) o 5 se imprese agricole o più di 60 dipendenti nell'ambito del territorio nazionale.
Per il computo bisogna considerare tutti i lavoratori subordinati e vengono esclusi gli autonomi e parasubordinati. Non verranno cumulati i contrattisti a termine che sostituiscono il lavoratore assente, gli apprendisti. Vengono invece computati i contrattisti con contratto di formazione.
Anche quelli con contratto di somministrazione sono nel computo. Vengono esclusi i lavoratori a domicilio, ma sono inclusi i lavoratori distaccati. I lavoratori a tempo determinato vanno inclusi limitatamente alle ore che prestano all'interno dell'impresa.
La tutela reale nonostante l'impresa raggiunga le dimensioni è esclusa per le organizzazioni di tendenza, organizzazioni che perseguono un fine ideologico. Il legislatore ha alleggerito la responsabilità di tale tipo di datore di lavoro, alla luce del fatto che si tratta un'attività prestata senza fini di lucro.
Qualora il lavoratore svolgesse mansioni neutre è stata esclusa la tutela reale, a prescindere dallo svolgimento di attività connesse al fine ideologico o meno.
La tutela reale si applica però sempre quando si tratta di licenziamento discriminatorio.
C'è un ambito residuo in cui la tutela reale dunque si applica sempre. Si chiama tutela reale di diritto comune, quando il licenziamento non ha nessun effetto ed è dunque nullo.
Quando il datore ha presso di sé anche un numero esiguo di lavoratori, vi sarà sempre e comunque l'applicazione della tutela reale.
Rimane un'area in cui la tutela reale può non applicarsi, in cui il datore può applicare il libero recesso. Tale area comprende i dirigenti (e non gli pseudo dirigenti) perché si tratta di una figura particolare che ha un rapporto di fiducia stretto con l'imprenditore. Anche nel caso del dirigente è stata coniata dalla giurisprudenza la necessità di giustificatezza. Per cui anche se non è necessaria la giusta causa o giustificato motivo il licenziamento deve essere comunque giustificato, si ha comunque non il reintegro ma un'indennità supplementare.
Altri lavoratori che rientrano nell'area della libera recidibilità sono i lavoratori in prova. La legge prevede un periodo minimo di 6 mesi, in cui il datore può licenziare anche senza motivo.
Sono anche esclusi i lavoratori domestici in quanto si tratta di rapporti in cui la fiducia è elemento centrale. Per cui si da possibilità al datore di licenziare.
A parte gli atleti professionisti è bene ricordare i lavoratori che hanno raggiunto l'età pensionabile. Questo perché può favorire il turn over con le nuove generazioni.
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Il contratto a progetto
Il lavoro a progetto non è un contratto di lavoro subordinato ma è una fattispecie atipica che si colloca come un tertium genus tra lavoro autonomo e lavoro subordinato. Viene definito come lavoro para subordinato in quanto il lavoratore assunto a progetto viene assunto per una collaborazione e non alle dipendenze.
La definizione del contratto viene data dall'art.61 del dgls276 2003 che modifica il co.co.co. E introduce la necessarietà che nel testo contrattuale sia esplicitato un progetto, un programma o una fase di esso di cui è incaricato il lavoratore. Dispone dunque che non si possono stipulare contratti di collaborazione continuativa senza che essi stessi non siano riconducibili a programmi specifici determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore.
Non è per forza individuato poi un termine di durata ma deve essere comunque determinabile il termine. Questo sempre nell'ottica di evitare l'uso fraudolento di questo tipo di contratti.
La legge è abbastanza vaga su cosa sia il progetto o programma. Per tale motivo il ministero del lavoro è intervenuto con circolari che hanno specificato e chiarito meglio. La circolare n.1 2004 ha chiarito che il progetto deve essere un'attività produttiva, deve essere determinata o comunque ben identificabile e deve essere collegata ad un risultato da raggiungere. Tale programma può essere legato o meno a un'attività dell'azienda.
Il contratto a progetto nella causale deve avere un progetto che consista in un'attività produttiva autonoma e distinta rispetto a quella del committente, purché esse siano comunque collegate.
La circolare n.4 del 2008 si è soffermata di nuovo sulla definizione di programma dicendo che questo non può totalmente coincidere con l'attività principale dell'impresa come definita nello statuto della stessa.
Il progetto deve avere una sua identità e non può essere previsto il semplice svolgimento di un'attività lavorativa e non possono elencarsi semplici mansioni.
Il contratto di lavoro a progetto inoltre non può essere conferito a tempo indeterminato. Non è essenziale un termine di durata ma è necessario che la durata sia predeterminata o predeterminabile.
La determinazione può essere legata allo svolgimento del progetto.
Il contratto di lavoro a progetto non è subordinato perché il lavoratore è fondamentalmente autonomo per l'attività che svolge e per la modalità con cui il progetto viene svolto in funzione del risultato da raggiungere.
Comunque l'autonomia deve essere contemperata dal legame che sussiste tra un'attività accessoria e l'attività dell'impresa stessa. Dunque se il lavoratore ha diritto di svolgere autonomamente il suo lavoro questi deve comunque coordinarsi con l'attività dell'impresa.
Il datore di lavoro non può impartire direttive ma è ovvio che il lavoratore a progetto deve seguire ad esempio gli orari di apertura dell'azienda, se in essa deve lavorare.
L'autonomia del lavoratore viene pattuita al momento della conclusione del contratto o nella sua esecuzione.
Se il lavoratore a progetto può essere tenuto a rispettare degli orari di lavoro perché la sua attività si deve svolgere nell'azienda, è anche vero però che il committente non potrà infliggere sanzioni disciplinari qualora gli orari non siano rispettati, in quanto tale strumento può essere applicato solo per i lavoratori subordinati.
La circolare n.4 del 2008 ha precisato che le prestazioni elementari sono difficilmente compatibili con un'idea di progetto. È facile immaginare che ci si stia avvalendo di un lavoratore a progetto per eludere solo una disciplina fiscale e previdenziale più gravosa. Quindi il ministero del lavoro ha fatto un elenco di attività presumibilmente non riconducibili a un contratto a progetto.
Sui centralinisti il ministero si è soffermato distinguendo tra lavoratori addetti all'outbound (clienti) e all'inbound (ricezione telefonate). In questa differenziazione il ministero ha ammesso il lavoro a progetto per i lavoratori outbound in quanto si può immaginare una necessità durante campagne che hanno durate determinate.
Per gli addetti alle attività inbound è escluso il contratto di lavoro a progetto.
Dunque il lavoro a progetto si distingue dal lavoro subordinato perché non c'è un vincolo e si distingue dal lavoro autonomo perché il lavoratore autonomo si rivolge esclusivamente al raggiungimento di un risultato e non c'è alcuna collaborazione con l'azienda.
Il rapporto di lavoro occasionale non può superare la durata massima di 30 giorni e il compenso non può essere retribuito con più di 5000 euro l'anno. Per il resto sono anch'esse collaborazioni coordinate e continuative che non richiedono l'esigenza di specificazione di un programma di un progetto.
Il legislatore ha previsto che nel caso in cui si superino i limiti temporali o retributivi il datore di lavoro dovrà stipulare con il lavoratore un rapporto di lavoro a progetto perché la collaborazione si è protratta più del previsto.
Il lavoro accessorio altro non è che un tipo di lavoro occasionale che può essere stipulato solo in determinate ipotesi tassativamente previste dalla legge, come per giardinaggio, manutenzione strade, collaborazione domestica e giovani iscritti all'università di età inferiore a 25 anni e studenti liceali nel fine settimana o nelle vacanze. Tali lavori possono essere retribuiti attraverso i voucher del ministero del lavoro che vengono distribuiti dall'INPS.
I lavoratori della PA non possono essere assunti attraverso il lavoro a progetto. Non è consentito neanche agli agenti di commercio il cui rapporto di lavoro è regolato nel codice civile,
ai liberi professionisti, ai lavoratori che lavorano per associazioni ed enti variamente collegati al CONI. Come anche i facenti parte di organi di amministrazione e controllo di società e coloro che percepiscono una pensione di vecchiaia.
Il contratto deve essere stipulato in forma scritta, per quanto non sia chiaro se la forma scritta sia richiesta ad substantiam o ad probationem. Il ministero del lavoro ha detto che la forma scritta è chiesta ad probationem.
È necessaria l'indicazione nel contratto a progetto della durata che deve essere determinata o determinabile, l'indicazione del progetto, del programma o delle fasi di esso, il corrispettivo e tutte le forme di coordinamento che il committente può imporre al lavoratore per lo svolgimento della sua attività produttiva purché ciò non pregiudichi l'autonomia.
La giurisprudenza ha chiarito che all'interno del testo contrattuale non è necessaria la denominazione esplicita di contratto a progetto e la giurisprudenza ha affermato che il contratto può essere definito a progetto anche dopo l'inizio del rapporto di lavoro.
Elemento essenziale è quello del corrispettivo disciplinato dall'art.63 per cui il compenso deve essere proporzionato alla qualità e quantità del lavoro e secondo al legge deve tenere conto del valore di mercato della prestazione di lavoro.
Questa previsione secondo la giurisprudenza può però dar vita a tariffe che contrasterebbero con le norme poste a tutela della concorrenza.
L'art.66 prevede regole per la gravidanza, malattia e infortunio del lavoratore a progetto e dispone che questi non comportano l'estinzione del rapporto contrattuale, che rimane sospeso senza l'erogazione del corrispettivo. Tali casi non prevedono comunque una proroga.
Il committente può recedere se l'assenza supera 1/6 della durata (qualora essa sia predeterminata) oppure superiore a 30 giorni se la durata è solo determinabile. La durata del lavoro è prorogata di 180 giorni solo nel caso di gravidanza.
Il lavoratore ha diritto all'applicazione da parte del committente di tutte le norme sulla sicurezza e l'igiene previste dal d.lgs. 626 del 1994.
Anche per il contratto a progetto la giurisdizione competente è quella del giudice del lavoro.
Il rapporto di lavoro a progetto si estingue al momento della realizzazione del progetto o programma o parte di esso ed è prevista la possibilità di recedere anche prima per giusta causa o per le cause stabilite dalle parti nel contratto.
Le cause sono dunque la realizzazione del progetto o programma o parte di esso; dal momento in cui si porta a termine il lavoro il contratto è estinto. Il rapporto è risolto anche dopo la scadenza del termine ove previsto.
Nel caso di risoluzione anticipata non ci sono conseguenze circa il godimento della retribuzione residua, cioè il lavoratore percepirà l'intera retribuzione prevista fino alla scadenza del termine.
Terzo caso di estinzione è quello della giusta causa per cui quando ci sia un avvenimento che incida sul rapporto di lavoro a progetto si ha diritto a recedere anticipatamente dal contratto.
Ulteriori cause possono essere stabilite nel singolo contratto per cui le parti possono convenire la libera recidibilità senza obbligo di preavviso.
Come conseguenza la parte non recedente ha diritto a un risarcimento di misura pari al periodo di tempo in cui non ha prestato lavoro altrimenti si fa riferimento ai principi generali.
Art.69 stabilisce quali sono le sanzioni nel caso in cui si instauri un contratto a progetto in modo illegittimo. In particolare vi è una conversione del rapporto in un lavoro subordinato a tempo indeterminato retroagendo al giorno della stipula contrattuale se non era previsto il progetto, programma o parte di esso. In caso di simulazione, se invece il rapporto è correttamente stipulato, il contratto di lavoro a progetto si trasforma in contratto subordinato corrispondente a quanto si è effettivamente messo in pratica e realizzata tra le parti. Il contratto si presume subordinato ma la presunzione può essere assoluta o relativa, a seconda dell'interpretazione che se ne da.
La definizione del contratto viene data dall'art.61 del dgls276 2003 che modifica il co.co.co. E introduce la necessarietà che nel testo contrattuale sia esplicitato un progetto, un programma o una fase di esso di cui è incaricato il lavoratore. Dispone dunque che non si possono stipulare contratti di collaborazione continuativa senza che essi stessi non siano riconducibili a programmi specifici determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore.
Non è per forza individuato poi un termine di durata ma deve essere comunque determinabile il termine. Questo sempre nell'ottica di evitare l'uso fraudolento di questo tipo di contratti.
La legge è abbastanza vaga su cosa sia il progetto o programma. Per tale motivo il ministero del lavoro è intervenuto con circolari che hanno specificato e chiarito meglio. La circolare n.1 2004 ha chiarito che il progetto deve essere un'attività produttiva, deve essere determinata o comunque ben identificabile e deve essere collegata ad un risultato da raggiungere. Tale programma può essere legato o meno a un'attività dell'azienda.
Il contratto a progetto nella causale deve avere un progetto che consista in un'attività produttiva autonoma e distinta rispetto a quella del committente, purché esse siano comunque collegate.
La circolare n.4 del 2008 si è soffermata di nuovo sulla definizione di programma dicendo che questo non può totalmente coincidere con l'attività principale dell'impresa come definita nello statuto della stessa.
Il progetto deve avere una sua identità e non può essere previsto il semplice svolgimento di un'attività lavorativa e non possono elencarsi semplici mansioni.
Il contratto di lavoro a progetto inoltre non può essere conferito a tempo indeterminato. Non è essenziale un termine di durata ma è necessario che la durata sia predeterminata o predeterminabile.
La determinazione può essere legata allo svolgimento del progetto.
Il contratto di lavoro a progetto non è subordinato perché il lavoratore è fondamentalmente autonomo per l'attività che svolge e per la modalità con cui il progetto viene svolto in funzione del risultato da raggiungere.
Comunque l'autonomia deve essere contemperata dal legame che sussiste tra un'attività accessoria e l'attività dell'impresa stessa. Dunque se il lavoratore ha diritto di svolgere autonomamente il suo lavoro questi deve comunque coordinarsi con l'attività dell'impresa.
Il datore di lavoro non può impartire direttive ma è ovvio che il lavoratore a progetto deve seguire ad esempio gli orari di apertura dell'azienda, se in essa deve lavorare.
L'autonomia del lavoratore viene pattuita al momento della conclusione del contratto o nella sua esecuzione.
Se il lavoratore a progetto può essere tenuto a rispettare degli orari di lavoro perché la sua attività si deve svolgere nell'azienda, è anche vero però che il committente non potrà infliggere sanzioni disciplinari qualora gli orari non siano rispettati, in quanto tale strumento può essere applicato solo per i lavoratori subordinati.
La circolare n.4 del 2008 ha precisato che le prestazioni elementari sono difficilmente compatibili con un'idea di progetto. È facile immaginare che ci si stia avvalendo di un lavoratore a progetto per eludere solo una disciplina fiscale e previdenziale più gravosa. Quindi il ministero del lavoro ha fatto un elenco di attività presumibilmente non riconducibili a un contratto a progetto.
Sui centralinisti il ministero si è soffermato distinguendo tra lavoratori addetti all'outbound (clienti) e all'inbound (ricezione telefonate). In questa differenziazione il ministero ha ammesso il lavoro a progetto per i lavoratori outbound in quanto si può immaginare una necessità durante campagne che hanno durate determinate.
Per gli addetti alle attività inbound è escluso il contratto di lavoro a progetto.
Dunque il lavoro a progetto si distingue dal lavoro subordinato perché non c'è un vincolo e si distingue dal lavoro autonomo perché il lavoratore autonomo si rivolge esclusivamente al raggiungimento di un risultato e non c'è alcuna collaborazione con l'azienda.
Il rapporto di lavoro occasionale non può superare la durata massima di 30 giorni e il compenso non può essere retribuito con più di 5000 euro l'anno. Per il resto sono anch'esse collaborazioni coordinate e continuative che non richiedono l'esigenza di specificazione di un programma di un progetto.
Il legislatore ha previsto che nel caso in cui si superino i limiti temporali o retributivi il datore di lavoro dovrà stipulare con il lavoratore un rapporto di lavoro a progetto perché la collaborazione si è protratta più del previsto.
Il lavoro accessorio altro non è che un tipo di lavoro occasionale che può essere stipulato solo in determinate ipotesi tassativamente previste dalla legge, come per giardinaggio, manutenzione strade, collaborazione domestica e giovani iscritti all'università di età inferiore a 25 anni e studenti liceali nel fine settimana o nelle vacanze. Tali lavori possono essere retribuiti attraverso i voucher del ministero del lavoro che vengono distribuiti dall'INPS.
I lavoratori della PA non possono essere assunti attraverso il lavoro a progetto. Non è consentito neanche agli agenti di commercio il cui rapporto di lavoro è regolato nel codice civile,
ai liberi professionisti, ai lavoratori che lavorano per associazioni ed enti variamente collegati al CONI. Come anche i facenti parte di organi di amministrazione e controllo di società e coloro che percepiscono una pensione di vecchiaia.
Il contratto deve essere stipulato in forma scritta, per quanto non sia chiaro se la forma scritta sia richiesta ad substantiam o ad probationem. Il ministero del lavoro ha detto che la forma scritta è chiesta ad probationem.
È necessaria l'indicazione nel contratto a progetto della durata che deve essere determinata o determinabile, l'indicazione del progetto, del programma o delle fasi di esso, il corrispettivo e tutte le forme di coordinamento che il committente può imporre al lavoratore per lo svolgimento della sua attività produttiva purché ciò non pregiudichi l'autonomia.
La giurisprudenza ha chiarito che all'interno del testo contrattuale non è necessaria la denominazione esplicita di contratto a progetto e la giurisprudenza ha affermato che il contratto può essere definito a progetto anche dopo l'inizio del rapporto di lavoro.
Elemento essenziale è quello del corrispettivo disciplinato dall'art.63 per cui il compenso deve essere proporzionato alla qualità e quantità del lavoro e secondo al legge deve tenere conto del valore di mercato della prestazione di lavoro.
Questa previsione secondo la giurisprudenza può però dar vita a tariffe che contrasterebbero con le norme poste a tutela della concorrenza.
L'art.66 prevede regole per la gravidanza, malattia e infortunio del lavoratore a progetto e dispone che questi non comportano l'estinzione del rapporto contrattuale, che rimane sospeso senza l'erogazione del corrispettivo. Tali casi non prevedono comunque una proroga.
Il committente può recedere se l'assenza supera 1/6 della durata (qualora essa sia predeterminata) oppure superiore a 30 giorni se la durata è solo determinabile. La durata del lavoro è prorogata di 180 giorni solo nel caso di gravidanza.
Il lavoratore ha diritto all'applicazione da parte del committente di tutte le norme sulla sicurezza e l'igiene previste dal d.lgs. 626 del 1994.
Anche per il contratto a progetto la giurisdizione competente è quella del giudice del lavoro.
Il rapporto di lavoro a progetto si estingue al momento della realizzazione del progetto o programma o parte di esso ed è prevista la possibilità di recedere anche prima per giusta causa o per le cause stabilite dalle parti nel contratto.
Le cause sono dunque la realizzazione del progetto o programma o parte di esso; dal momento in cui si porta a termine il lavoro il contratto è estinto. Il rapporto è risolto anche dopo la scadenza del termine ove previsto.
Nel caso di risoluzione anticipata non ci sono conseguenze circa il godimento della retribuzione residua, cioè il lavoratore percepirà l'intera retribuzione prevista fino alla scadenza del termine.
Terzo caso di estinzione è quello della giusta causa per cui quando ci sia un avvenimento che incida sul rapporto di lavoro a progetto si ha diritto a recedere anticipatamente dal contratto.
Ulteriori cause possono essere stabilite nel singolo contratto per cui le parti possono convenire la libera recidibilità senza obbligo di preavviso.
Come conseguenza la parte non recedente ha diritto a un risarcimento di misura pari al periodo di tempo in cui non ha prestato lavoro altrimenti si fa riferimento ai principi generali.
Art.69 stabilisce quali sono le sanzioni nel caso in cui si instauri un contratto a progetto in modo illegittimo. In particolare vi è una conversione del rapporto in un lavoro subordinato a tempo indeterminato retroagendo al giorno della stipula contrattuale se non era previsto il progetto, programma o parte di esso. In caso di simulazione, se invece il rapporto è correttamente stipulato, il contratto di lavoro a progetto si trasforma in contratto subordinato corrispondente a quanto si è effettivamente messo in pratica e realizzata tra le parti. Il contratto si presume subordinato ma la presunzione può essere assoluta o relativa, a seconda dell'interpretazione che se ne da.
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Il licenziamento disciplinare
L'esercizio del potere disciplinare avviene mediante una dettagliata disciplina descritta dallo statuto dei lavoratori e si applica indipendentemente dalla misura dell'impresa. Questo porta all'obbligo del datore di lavoro di avere un codice disciplinare posto della contrattazione collettiva o dal datore di lavoro indipendentemente.
Sostanzialmente il datore di lavoro può o provvedervi mediate un estratto dal contratto collettivo nazionale, sia attraverso un contratto collettivo aziendale oppure può proporlo unilateralmente. Comunque va affisso all'interno dell'azienda, si affigge sia l'intero contratto( per quanto vi sia controversia sulla legittimità) oppure direttamente si affigge il codice disciplinare.
Secondo recente giurisprudenza l'affissione e la predisposizione, in caso di espulsione del lavoratore, non sono necessari se si tratta di comportamenti che sono lesivi delle regole generali, quindi nei casi di furto, rissa ecc.(cassazione del 2 settembre 2004 n.17763).
un altro caso in cui non è necessaria l'affissione sussiste quando il lavoratore va contro gli obblighi di correttezza e buonafede se portati all'eccesso(cass. 2009 n.18169).
La ragione di queste eccezioni alla regola è nel fatto che il comportamento è illegittimo anche in assenza dell'affissione.
Le infrazioni sono rapportabili ad una serie di doveri del prestatore di lavoro: diligenza, obbedienza e fedeltà. È necessario evitare ritardi e assenze sul lavoro ingiustificati. La cassazione nel 2005 ha stabilito che l'assenza ingiustificata oltre un certo termine è causa di scioglimento solo se avviene entro certi casi. Il datore di lavoro deve contestare per iscritto l'addebito (forma scritta ad substantiam). Inoltre la contestazione va comunicata in un certo modo per particolari contratti.
Altre forme di conoscenza non vanno a supplire la mancanza della forma scritta. Vale solo una comunicazione consegnata brevi manu facendosene dare una copia per ricevuta salvo che il contratto non preveda diverso modo specifico.
La comunicazione deve avere tre requisiti: la specificità, l'immediatezza, l'immutabilità.
La specificità significa che deve esserci una descrizione dettagliata dell'illecito perché sia tutelato l'art.24 della costituzione che garantisce il diritto di difesa.
Il datore di lavoro non ha però l'obbligo di indicare eventuali prove tramite cui sia venuto a conoscenza dell'illecito, né documentale né testimoniale.
Non è tenuto nemmeno a dare comunicazione della documentazione aziendale salvo che per garantire il diritto di difesa.
Il principio dell'immediatezza è un principio generale e dice che la contestazione dell'infrazione deve avvenire immediatamente dopo la sua commissione, il datore di lavoro può aver avuto conoscenza anche dopo la sua commissione e allora in questo caso si applica a partire dalla conoscenza del datore di lavoro dell'avvenuta infrazione.
Secondo la giurisprudenza se il lavoratore ha modo di dimostrare che il datore di lavoro già conosceva la situazione questi non è legittimato a contestare la presunta infrazione.
La giurisprudenza con sentenza del 2008 in caso di concorrenza con il giudizio penale ha affermato che il datore può contestare immediatamente al lavoratore e sospendere la procedura disciplinare fino all'esito del giudizio penale.
Laddove vi sia un procedimento nei confronti del lavoratore vi può essere una sospensione cautelare, strumento adottato dal datore di lavoro quando i tempi del procedimento sono incompatibili con quelli del lavoro in azienda. Non si tratta di un procedimento disciplinare e non comporta una sospensione della retribuzione ma è strettamente connesso al procedimento disciplinare. Può essere avviato quando ha cominciato l'esercizio del potere disciplinare e quando il procedimento penale sia incompatibile nei tempi con il lavoro in azienda.
Terzo e ultimo requisito è quello dell'immutabilità e cioè i fatti su cui si basa la sanzione devono coincidere con quelli della contestazione. La sanzione deve essere proporzionata alla fattispecie. la giurisprudenza con la sentenza n.14212 del 2010 dice che il datore di lavoro non può contestare ulteriori fatti perché graverebbe sul diritto di difesa del lavoratore.
Il procedimento è formato da diverse parti: contestazione, giustificazione, comunicazione e comunicazione dell'esecuzione.
Nel momento in cui il lavoratore riceve la contestazione il lavoratore ha per legge(l.300 1970) un termine in cui può presentare le giustificazioni per iscritto o oralmente oppure ancora per iscritto chiedendo anche l'audizione personale. Il termine è di 5 giorni dalla contestazione e dal momento in particolare in cui egli l'ha ricevuta. La contrattazione collettiva ha stabilito a volte un termine superiore.
Nel corso dell'audizione il prestatore di lavoro può farsi assistere da un sindacalista cui ha conferito mandato ma normalmente non è concessa la presenza di avvocati.
Il termine è prorogabile solo per chiusura della società e comunque per il termine si computano anche le domeniche.
Il licenziamento non può esservi nel caso in cui il lavoratore sia in malattia, salvo che si tratti di licenziamento per giusta causa. La giurisprudenza ha stabilito che vale il licenziamento salvo che nel caso di motivo soggettivo di licenziamento. Di solito succede che il lavoratore finisce per essere licenziato per superamento del limite di comporto.
Secondo alcuni contratti tra giustificazione e licenziamento deve esserci un limite non superiore a 20 giorni per cui il lavoratore dopo aver chiesto l'audizione si mette in malattia e crea uno slittamento di tempi che va oltre il termine di 20 giorni. Il datore di lavoro può concedere ulteriori proroghe riservandosi il diritto di agire disciplinarmente. Così avviene fino all'audizione personale e seguirà poi la sanzione disciplinare o meno.
Il licenziamento disciplinare è motivato da inadempimento del lavoratore e comprende tutte le ipotesi di giustificato motivo soggettivo e gran parte delle ipotesi di licenziamento per giusta causa indipendentemente dal fatto che la contrattazione collettiva le includa o meno nelle ipotesi.
Il vincolo fiduciario viene leso in modo così irreparabile che la situazione non può rientrare in alcun modo. Il giudice può degradare il licenziamento da giusta causa a quello per motivo soggettivo così che cambia il termine di preavviso. La giurisprudenza ha però ravvisato un comportamento illegittimo da parte del giudice in questo caso.
Di per sé l'illecito penale non giustifica il licenziamento ma è necessario valutare una serie di elementi in base a principi di coscienza sociale ad esempio nel caso in cui l'illecito avvenga fuori dagli orari e luoghi di lavoro.
Una sentenza di proscioglimento non vincola d'altro lato il datore circa il licenziamento.
Nel caso in cui il lavoratore sveli alla concorrenza segreti il lavoratore viola l'obbligo di fedeltà anche se il comportamento non è previsto nel codice.
Il dirigente, avendo tante prerogative, è in regime di libera recidibilità nel caso in cui sussista una giustificatezza del licenziamento. Dunque fino al 2007 il dirigente aveva una lettera di comunicazione del licenziamento e il rapporto si chiudeva in quel momento.
n.7880 del 2007 dice che l'art.7 della l.n. 300/1970 deve essere allargato anche ai dirigenti e quindi ricomprende tutti i lavoratori salvo che i collaboratori domestici. Se non si osserva tale procedura il licenziamento è ingiustificato, come se fosse daterminato da ingiustificato motivo.
Tale sentenza ha creato molte difficoltà in quanto ha modificato fortemente la prassi.
Per i dirigenti non c'è inoltre la reintegrazione sul posto di lavoro salvo che il licenziamento non sia considerato nullo come ad esempio nel caso di discriminazioni.
Tutta la procedura si chiude con l'intimazione di licenziamento che è atto unilaterale e recettizio che vale a meno che il lavoratore non fosse nell'impossibilità di riceverlo.
L'intimazione di licenziamento va inviata con raccomandata(procedura più logica) e non è necessario che vi sia un dettaglio di tutti i motivi essendo sufficiente un riferimento alla lettera di contestazione. Dopo di che il rapporto si risolve.
Se non vengono rispettate le garanzie del procedimenti il licenziamento non è nullo ma illegittimo e per tale motivo si ha una tutela reale con la reintegrazione e risarcimento mentre in caso di tutela obbligatoria si ha il solo risarcimento.
Sostanzialmente il datore di lavoro può o provvedervi mediate un estratto dal contratto collettivo nazionale, sia attraverso un contratto collettivo aziendale oppure può proporlo unilateralmente. Comunque va affisso all'interno dell'azienda, si affigge sia l'intero contratto( per quanto vi sia controversia sulla legittimità) oppure direttamente si affigge il codice disciplinare.
Secondo recente giurisprudenza l'affissione e la predisposizione, in caso di espulsione del lavoratore, non sono necessari se si tratta di comportamenti che sono lesivi delle regole generali, quindi nei casi di furto, rissa ecc.(cassazione del 2 settembre 2004 n.17763).
un altro caso in cui non è necessaria l'affissione sussiste quando il lavoratore va contro gli obblighi di correttezza e buonafede se portati all'eccesso(cass. 2009 n.18169).
La ragione di queste eccezioni alla regola è nel fatto che il comportamento è illegittimo anche in assenza dell'affissione.
Le infrazioni sono rapportabili ad una serie di doveri del prestatore di lavoro: diligenza, obbedienza e fedeltà. È necessario evitare ritardi e assenze sul lavoro ingiustificati. La cassazione nel 2005 ha stabilito che l'assenza ingiustificata oltre un certo termine è causa di scioglimento solo se avviene entro certi casi. Il datore di lavoro deve contestare per iscritto l'addebito (forma scritta ad substantiam). Inoltre la contestazione va comunicata in un certo modo per particolari contratti.
Altre forme di conoscenza non vanno a supplire la mancanza della forma scritta. Vale solo una comunicazione consegnata brevi manu facendosene dare una copia per ricevuta salvo che il contratto non preveda diverso modo specifico.
La comunicazione deve avere tre requisiti: la specificità, l'immediatezza, l'immutabilità.
La specificità significa che deve esserci una descrizione dettagliata dell'illecito perché sia tutelato l'art.24 della costituzione che garantisce il diritto di difesa.
Il datore di lavoro non ha però l'obbligo di indicare eventuali prove tramite cui sia venuto a conoscenza dell'illecito, né documentale né testimoniale.
Non è tenuto nemmeno a dare comunicazione della documentazione aziendale salvo che per garantire il diritto di difesa.
Il principio dell'immediatezza è un principio generale e dice che la contestazione dell'infrazione deve avvenire immediatamente dopo la sua commissione, il datore di lavoro può aver avuto conoscenza anche dopo la sua commissione e allora in questo caso si applica a partire dalla conoscenza del datore di lavoro dell'avvenuta infrazione.
Secondo la giurisprudenza se il lavoratore ha modo di dimostrare che il datore di lavoro già conosceva la situazione questi non è legittimato a contestare la presunta infrazione.
La giurisprudenza con sentenza del 2008 in caso di concorrenza con il giudizio penale ha affermato che il datore può contestare immediatamente al lavoratore e sospendere la procedura disciplinare fino all'esito del giudizio penale.
Laddove vi sia un procedimento nei confronti del lavoratore vi può essere una sospensione cautelare, strumento adottato dal datore di lavoro quando i tempi del procedimento sono incompatibili con quelli del lavoro in azienda. Non si tratta di un procedimento disciplinare e non comporta una sospensione della retribuzione ma è strettamente connesso al procedimento disciplinare. Può essere avviato quando ha cominciato l'esercizio del potere disciplinare e quando il procedimento penale sia incompatibile nei tempi con il lavoro in azienda.
Terzo e ultimo requisito è quello dell'immutabilità e cioè i fatti su cui si basa la sanzione devono coincidere con quelli della contestazione. La sanzione deve essere proporzionata alla fattispecie. la giurisprudenza con la sentenza n.14212 del 2010 dice che il datore di lavoro non può contestare ulteriori fatti perché graverebbe sul diritto di difesa del lavoratore.
Il procedimento è formato da diverse parti: contestazione, giustificazione, comunicazione e comunicazione dell'esecuzione.
Nel momento in cui il lavoratore riceve la contestazione il lavoratore ha per legge(l.300 1970) un termine in cui può presentare le giustificazioni per iscritto o oralmente oppure ancora per iscritto chiedendo anche l'audizione personale. Il termine è di 5 giorni dalla contestazione e dal momento in particolare in cui egli l'ha ricevuta. La contrattazione collettiva ha stabilito a volte un termine superiore.
Nel corso dell'audizione il prestatore di lavoro può farsi assistere da un sindacalista cui ha conferito mandato ma normalmente non è concessa la presenza di avvocati.
Il termine è prorogabile solo per chiusura della società e comunque per il termine si computano anche le domeniche.
Il licenziamento non può esservi nel caso in cui il lavoratore sia in malattia, salvo che si tratti di licenziamento per giusta causa. La giurisprudenza ha stabilito che vale il licenziamento salvo che nel caso di motivo soggettivo di licenziamento. Di solito succede che il lavoratore finisce per essere licenziato per superamento del limite di comporto.
Secondo alcuni contratti tra giustificazione e licenziamento deve esserci un limite non superiore a 20 giorni per cui il lavoratore dopo aver chiesto l'audizione si mette in malattia e crea uno slittamento di tempi che va oltre il termine di 20 giorni. Il datore di lavoro può concedere ulteriori proroghe riservandosi il diritto di agire disciplinarmente. Così avviene fino all'audizione personale e seguirà poi la sanzione disciplinare o meno.
Il licenziamento disciplinare è motivato da inadempimento del lavoratore e comprende tutte le ipotesi di giustificato motivo soggettivo e gran parte delle ipotesi di licenziamento per giusta causa indipendentemente dal fatto che la contrattazione collettiva le includa o meno nelle ipotesi.
Il vincolo fiduciario viene leso in modo così irreparabile che la situazione non può rientrare in alcun modo. Il giudice può degradare il licenziamento da giusta causa a quello per motivo soggettivo così che cambia il termine di preavviso. La giurisprudenza ha però ravvisato un comportamento illegittimo da parte del giudice in questo caso.
Di per sé l'illecito penale non giustifica il licenziamento ma è necessario valutare una serie di elementi in base a principi di coscienza sociale ad esempio nel caso in cui l'illecito avvenga fuori dagli orari e luoghi di lavoro.
Una sentenza di proscioglimento non vincola d'altro lato il datore circa il licenziamento.
Nel caso in cui il lavoratore sveli alla concorrenza segreti il lavoratore viola l'obbligo di fedeltà anche se il comportamento non è previsto nel codice.
Il dirigente, avendo tante prerogative, è in regime di libera recidibilità nel caso in cui sussista una giustificatezza del licenziamento. Dunque fino al 2007 il dirigente aveva una lettera di comunicazione del licenziamento e il rapporto si chiudeva in quel momento.
n.7880 del 2007 dice che l'art.7 della l.n. 300/1970 deve essere allargato anche ai dirigenti e quindi ricomprende tutti i lavoratori salvo che i collaboratori domestici. Se non si osserva tale procedura il licenziamento è ingiustificato, come se fosse daterminato da ingiustificato motivo.
Tale sentenza ha creato molte difficoltà in quanto ha modificato fortemente la prassi.
Per i dirigenti non c'è inoltre la reintegrazione sul posto di lavoro salvo che il licenziamento non sia considerato nullo come ad esempio nel caso di discriminazioni.
Tutta la procedura si chiude con l'intimazione di licenziamento che è atto unilaterale e recettizio che vale a meno che il lavoratore non fosse nell'impossibilità di riceverlo.
L'intimazione di licenziamento va inviata con raccomandata(procedura più logica) e non è necessario che vi sia un dettaglio di tutti i motivi essendo sufficiente un riferimento alla lettera di contestazione. Dopo di che il rapporto si risolve.
Se non vengono rispettate le garanzie del procedimenti il licenziamento non è nullo ma illegittimo e per tale motivo si ha una tutela reale con la reintegrazione e risarcimento mentre in caso di tutela obbligatoria si ha il solo risarcimento.
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Il contratto a tempo determinato
con il codice del 1865 non si prevede un contratto di lavoro a tempo indeterminato, nel 1942 c'è un ribaltamento e il contratto a tempo determinato è previsto per ipotesi speciali.
Con la legge 230 del 1962 si può prevedere un contratto a tempo determinato per casi tassativi.
Nel 1970 il legislatore torna a vedere con favore il contratto di lavoro a tempo determinato e
secondo importanti studiosi la ragione è determinata dall'introduzione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori. L'articolo 18 prevede una tutela rafforzata per il lavoratore in caso di licenziamento, nel caso in cui sia illegittimo il datore di lavoro è obbligato a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro in quanto il licenziamento è tamquam non esset.
Secondo importanti autori aver previsto dei vincoli più stringenti all'interruzione dei rapporti di lavoro creando delle sanzioni per il datore di lavoro in comportamenti non corretti ha determinato la possibilità di stipulare contratti a termine.
Questo ha portato nel tempo a prevedere sempre maggiori fattispecie e poi ha fatto si che i sindacati potessero prevedere diverse fattispecie di contratti a termine.
Il legislatore nel 1962 aveva specificatamente previsto la sanzione contro chi prevedeva contratti a tempo determinato nei casi fuori dalla legge.
Nel 1999 la comunità europea fa una direttiva al fine di migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato e per evitare l'abuso nei contratti a tempo determinato.
Dunque si muove su due direttive:migliorare la qualità del lavoro e porre una regolamentazione per evitare abusi del contratto a termine.
Il contratto a termine può essere risolto solo per giusta causa e al suo termine si interrompe. Con tale direttiva si evita che il datore di lavoro ricostituisca continuamente il contratto a tempo.
Il legislatore ha promulgato il d. lgs. 368 del 2001 che ancora regola la materia sebbene l'originale sia stato poi modificato dalla l. 247 del 2007 la 133 del 2008 e la 103 del 2010.
secondo il disposto dell'art.1,1 comma del d.lgs. 368 i contratti a tempo determinato possono essere costituiti solo in caso di necessità tecnico organizzativo produttivo e sostitutivo dunque è sostituita la tipicità con una clausola generale. Non c'è un'elencazione tassativa delle ipotesi ma delle ragioni che possono determinare la stipula. Questo rappresenta il cuore della disciplina:il datore di lavoro non può stipulare sempre rapporti a tempo determinato. Questa è una fattispecie speciale, il contratto a tempo indeterminato è sempre la regola.
Oggi la legge 247 del 2007 introduce un comma 0 che dice che il contratto subordinato è di regola a tempo indeterminato, evidenziando ancora di più questo fatto. Il contratto a tempo determinato è una fattispecie speciale. Nel contratto deve essere espressa la causale per cui è stato stipulato.
Secondo alcuni autori le fattispecie che giustificano l'assunzione a tempo determinato devono essere anche temporanee. Secondo invece altra parte di dottrina e giurisprudenza è necessario che le ragioni sussistano oggettivamente ma siccome né nella legge né nella direttiva è richiesta esplicitamente la temporaneità allora essa non deve essere richiesta.
Con la legge 133 del 2008 si introduce una nuova modifica all'art.1 esplicitando che le necessità possono riferirsi anche all'ordinaria attività del datore di lavoro. Dunque non devono essere temporanee e speciali. L'unica cosa necessaria è che le ragioni siano specificate.
Per i settori postali e aeroportuali i datori di lavoro possono stipulare contratti a termine acausali, senza che sussistano ragioni dette. L'importante è che siano rispettati altri requisiti.
Per il servizio postale è necessario che i contratti abbiano la durata prescritta dalla legge, che gli assunti a tempo determinato non superino il 15% degli assunti a tempo indeterminato.
Il problema più grande posto dal 368 è che il legislatore non specifica la sanzione in caso di contratto a tempo determinato stipulato in assenza di ragioni.
Due sono le tesi possibili da seguire e che la giurisprudenza ha di fatto seguito: secondo una prima tesi quella del legislatore è una mera omissione e dunque va convertito il rapporto di lavoro in uno a tempo indeterminato, come previsto da altre sanzioni.
Secondo una parte minoritaria della giurisprudenza invece troverebbe applicazione qui l'art.1419 c.c., cioè la nullità del contratto. In particolare vi è nullità qualora risulti che almeno una delle parti non avrebbe stipulato il contratto in assenza di quella clausola. Questa sarebbe una soluzione sfavorevole per il lavoratore in quanto il datore può determinare la nullità dell'intero contratto.
Il collegato lavoro è la legge 183 del 2010 che ha disciplinato di nuovo vari istituti del diritto del lavoro a partire dal licenziamento fino ad incidere sul contratto di lavoro a tempo determinato.
L'art.32,5comma: nei casi di conversione di contratto a tempo determinato il giudice condanna...ecc. Dunque capire se la sanzione è quella della conversione o meno diventa fondamentale. Secondo i primi commentatori il legislatore determina anche qui la conversione.
...condanna al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva tra i 2,5 e le 12
mensilità di fatto. Sostituendo cosi l'ipotesi precedente secondo cui si doveva dare la retribuzione a partire dal termine dichiarato illegittimo.
Le ipotesi della giurisprudenza sono: a quali contratti a tempo determinato va applicato? La legge esclude le mensilità? Il lavoratore ha diritto solo all'indennità?o il legislatore voleva accompagnare la conversione alle mensilità e all'indennità?
Secondo l'interpretazione letterale il lavoratore non ha diritto alla retribuzione ma solo alla indennità, specificandosi tra l'altro che è onnicomprensiva.
Art.8 l.204 del 1966 determina i criteri per stabilire l'indennità.
Il lavoratore a tempo determinato deve avere lo stesso trattamento del lavoratore a tempo indeterminato.
È necessaria per il contratto a tempo determinato la forma scritta, altrimenti si ha conversione.
Il legislatore ha previsto divieti di assunzioni di lavoratori a tempo determinato per lavoratori che sostituiscano lavoratori in sciopero, per le attività produttive in cui vi sia una sospensione, per unità produttive che non abbiano fatto la valutazione rischi(?).
Il contratto a termine può essere prorogato solo una volta con il consenso del lavoratore, solo quando la durata originaria del contratto era inferiore a 3 anni. Il legislatore è intervenuto sull'art.4 del 368 prevedendo una durata massima del contratto a termine di 36 mesi.
Il legislatore ha previsto anche il modo in cui si possono stipulare contratti a termine. Non si possono stipulare i due contratti a termine senza soluzione di continuità. Per i contratti di durata superiore a 6 mesi sono necessari 20 giorni. Nel caso siano inferiori a 6 mesi 10giorni.
Il legislatore ha previsto che la sanzione è quella della conversione.
Il contratto a termine non va confuso con il contratto a tempo parziale, il part time.
Il contratto a termine è identico ad un contratto a tempo indeterminato ma gli è apposto un termine, il contratto a tempo parziale rappresenta una fattispecie diversa.
Il collegato lavoro, soprattutto per quanto riguarda l'art.32,5' comma, ritenuto costituzionalmente illegittimo, ha fatto sollevare la questione di legittimità costituzionale rispetto agli artt.3,24,36,111,117cost.
Secondo essi introduce un trattamento peggiorativo per il lavoratore e dunque illegittimo perché trova applicazione a tutti i giudizi in corso, violando il principio del giusto processo. Per questo
sarebbe anche in contrasto con l'art.6 della CEDU.
Con la legge 230 del 1962 si può prevedere un contratto a tempo determinato per casi tassativi.
Nel 1970 il legislatore torna a vedere con favore il contratto di lavoro a tempo determinato e
secondo importanti studiosi la ragione è determinata dall'introduzione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori. L'articolo 18 prevede una tutela rafforzata per il lavoratore in caso di licenziamento, nel caso in cui sia illegittimo il datore di lavoro è obbligato a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro in quanto il licenziamento è tamquam non esset.
Secondo importanti autori aver previsto dei vincoli più stringenti all'interruzione dei rapporti di lavoro creando delle sanzioni per il datore di lavoro in comportamenti non corretti ha determinato la possibilità di stipulare contratti a termine.
Questo ha portato nel tempo a prevedere sempre maggiori fattispecie e poi ha fatto si che i sindacati potessero prevedere diverse fattispecie di contratti a termine.
Il legislatore nel 1962 aveva specificatamente previsto la sanzione contro chi prevedeva contratti a tempo determinato nei casi fuori dalla legge.
Nel 1999 la comunità europea fa una direttiva al fine di migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato e per evitare l'abuso nei contratti a tempo determinato.
Dunque si muove su due direttive:migliorare la qualità del lavoro e porre una regolamentazione per evitare abusi del contratto a termine.
Il contratto a termine può essere risolto solo per giusta causa e al suo termine si interrompe. Con tale direttiva si evita che il datore di lavoro ricostituisca continuamente il contratto a tempo.
Il legislatore ha promulgato il d. lgs. 368 del 2001 che ancora regola la materia sebbene l'originale sia stato poi modificato dalla l. 247 del 2007 la 133 del 2008 e la 103 del 2010.
secondo il disposto dell'art.1,1 comma del d.lgs. 368 i contratti a tempo determinato possono essere costituiti solo in caso di necessità tecnico organizzativo produttivo e sostitutivo dunque è sostituita la tipicità con una clausola generale. Non c'è un'elencazione tassativa delle ipotesi ma delle ragioni che possono determinare la stipula. Questo rappresenta il cuore della disciplina:il datore di lavoro non può stipulare sempre rapporti a tempo determinato. Questa è una fattispecie speciale, il contratto a tempo indeterminato è sempre la regola.
Oggi la legge 247 del 2007 introduce un comma 0 che dice che il contratto subordinato è di regola a tempo indeterminato, evidenziando ancora di più questo fatto. Il contratto a tempo determinato è una fattispecie speciale. Nel contratto deve essere espressa la causale per cui è stato stipulato.
Secondo alcuni autori le fattispecie che giustificano l'assunzione a tempo determinato devono essere anche temporanee. Secondo invece altra parte di dottrina e giurisprudenza è necessario che le ragioni sussistano oggettivamente ma siccome né nella legge né nella direttiva è richiesta esplicitamente la temporaneità allora essa non deve essere richiesta.
Con la legge 133 del 2008 si introduce una nuova modifica all'art.1 esplicitando che le necessità possono riferirsi anche all'ordinaria attività del datore di lavoro. Dunque non devono essere temporanee e speciali. L'unica cosa necessaria è che le ragioni siano specificate.
Per i settori postali e aeroportuali i datori di lavoro possono stipulare contratti a termine acausali, senza che sussistano ragioni dette. L'importante è che siano rispettati altri requisiti.
Per il servizio postale è necessario che i contratti abbiano la durata prescritta dalla legge, che gli assunti a tempo determinato non superino il 15% degli assunti a tempo indeterminato.
Il problema più grande posto dal 368 è che il legislatore non specifica la sanzione in caso di contratto a tempo determinato stipulato in assenza di ragioni.
Due sono le tesi possibili da seguire e che la giurisprudenza ha di fatto seguito: secondo una prima tesi quella del legislatore è una mera omissione e dunque va convertito il rapporto di lavoro in uno a tempo indeterminato, come previsto da altre sanzioni.
Secondo una parte minoritaria della giurisprudenza invece troverebbe applicazione qui l'art.1419 c.c., cioè la nullità del contratto. In particolare vi è nullità qualora risulti che almeno una delle parti non avrebbe stipulato il contratto in assenza di quella clausola. Questa sarebbe una soluzione sfavorevole per il lavoratore in quanto il datore può determinare la nullità dell'intero contratto.
Il collegato lavoro è la legge 183 del 2010 che ha disciplinato di nuovo vari istituti del diritto del lavoro a partire dal licenziamento fino ad incidere sul contratto di lavoro a tempo determinato.
L'art.32,5comma: nei casi di conversione di contratto a tempo determinato il giudice condanna...ecc. Dunque capire se la sanzione è quella della conversione o meno diventa fondamentale. Secondo i primi commentatori il legislatore determina anche qui la conversione.
...condanna al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva tra i 2,5 e le 12
mensilità di fatto. Sostituendo cosi l'ipotesi precedente secondo cui si doveva dare la retribuzione a partire dal termine dichiarato illegittimo.
Le ipotesi della giurisprudenza sono: a quali contratti a tempo determinato va applicato? La legge esclude le mensilità? Il lavoratore ha diritto solo all'indennità?o il legislatore voleva accompagnare la conversione alle mensilità e all'indennità?
Secondo l'interpretazione letterale il lavoratore non ha diritto alla retribuzione ma solo alla indennità, specificandosi tra l'altro che è onnicomprensiva.
Art.8 l.204 del 1966 determina i criteri per stabilire l'indennità.
Il lavoratore a tempo determinato deve avere lo stesso trattamento del lavoratore a tempo indeterminato.
È necessaria per il contratto a tempo determinato la forma scritta, altrimenti si ha conversione.
Il legislatore ha previsto divieti di assunzioni di lavoratori a tempo determinato per lavoratori che sostituiscano lavoratori in sciopero, per le attività produttive in cui vi sia una sospensione, per unità produttive che non abbiano fatto la valutazione rischi(?).
Il contratto a termine può essere prorogato solo una volta con il consenso del lavoratore, solo quando la durata originaria del contratto era inferiore a 3 anni. Il legislatore è intervenuto sull'art.4 del 368 prevedendo una durata massima del contratto a termine di 36 mesi.
Il legislatore ha previsto anche il modo in cui si possono stipulare contratti a termine. Non si possono stipulare i due contratti a termine senza soluzione di continuità. Per i contratti di durata superiore a 6 mesi sono necessari 20 giorni. Nel caso siano inferiori a 6 mesi 10giorni.
Il legislatore ha previsto che la sanzione è quella della conversione.
Il contratto a termine non va confuso con il contratto a tempo parziale, il part time.
Il contratto a termine è identico ad un contratto a tempo indeterminato ma gli è apposto un termine, il contratto a tempo parziale rappresenta una fattispecie diversa.
Il collegato lavoro, soprattutto per quanto riguarda l'art.32,5' comma, ritenuto costituzionalmente illegittimo, ha fatto sollevare la questione di legittimità costituzionale rispetto agli artt.3,24,36,111,117cost.
Secondo essi introduce un trattamento peggiorativo per il lavoratore e dunque illegittimo perché trova applicazione a tutti i giudizi in corso, violando il principio del giusto processo. Per questo
sarebbe anche in contrasto con l'art.6 della CEDU.
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sabato 12 marzo 2011
I DIRITTI DEI LEGITTIMARI. L'AZIONE DI RIDUZIONE E IL TRUST
1.LA CONVENZIONE DELL'AJA DEL 1985 E LA SALVEZZA DEI DIRITTI DEI LEGITTIMARI. UNA RECENTE APPLICAZIONE GIURISPRUDENZIALE
La Convenzione dell'Aja fa espressamente salvi i limiti della legge nazionale in materia di testamento e di devoluzione dei beni ereditari, con specifica attenzione ai diritti dei legittimari.
Una disposizione testamentaria istitutiva di un trust è soggetta all'azione di riduzione ex art.558c.c. in caso di lesione della quota di legittima. Ugualmente è soggetta a riduzione la costituzione di un trust per atto tra vivi lesivo della legittima nel caso in cui si tratti di donazione indiretta.
Dunque un trust inter vivos o mortis causa lesivo della legittima non è nullo per contrarietà all'ordine pubblico, ma è semplicemente riducibile a domanda dei legittimari nella misura in cui sia necessario per la reintegrazione della quota di riserva.
Una sentenza del tribunale di Lucca del 1997 costituisce il punto di arrivo di una lenta evoluzione che ha portato a un radicale mutamento di prospettiva della giurisprudenza nei confronti dei trusts costituiti nei paesi di common law, dal momento in cui ritiene ammissibili ma soggette a riduzione le disposizioni testamentarie redatte all'estero che istituiscono un trust di ultima volontà in violazione delle norme sulla successione necessaria. Nel caso di specie un cittadino italiano naturalizzato americano aveva disposto dell'intero patrimonio a favore di un fiduciario il quale avrebbe dovuto amministrarlo a sua assoluta e insindacabile discrezione per tutta la durata della vita dell'unica figlia del de cuius e fino al compimento del 25esimo anno di età da parte dell'ultimo dei figli di quest'ultima; in tale momento ciò che sarebbe rimasto del patrimonio del de cuius avrebbe dovuto essere diviso in parti uguali tra i nipoti ancora viventi. Fino a quel momento alla figlia e ai nipoti andava corrisposta una rendita a titolo di sostegno e mantenimento.
Il tribunale di Lucca ne ha ammesso la compatibilità con i principi generali dell'ordinamento italiano, in quanto la violazione dei diritti dei legittimari non comporta la nullità del testamento neanche limitatamente alle disposizioni lesive della legittima, stante la possibilità di applicare le disposizioni del diritto interno strumentali alla reintegrazione della quota di riserva dei legittimari secondo quanto previsto dall'art.15 della convenzione di l'Aja.
3.LE DIFFICOLTA' DELL'AZIONE DI RIDUZIONE . LA LEGITTIMAZIONE PASSIVA DEL DESTINATARIO FINALE
L'art.15 della convenzione de l'Aja risolve a livello di principio il problema del raccordo del riconoscimento degli effetti dei trusts costituiti nei paesi di common law con la tutela dei legittimari.
Il trust testamentario deve rispettare le norme sulla legittima e non può essere utilizzato per diseredare un figlio o il coniuge. Per quanto riguarda il trust per atto tra vivi la corte di cassazione francese stabilisce che si tratta di una donazione indiretta e dunque l'attribuzione di un bene al trustee è riducibile in caso di lesione della legittima. Tale ricostruzione del trust come liberalità atipica sarebbe in contrasto con il favore della convenzione. La ricostruzione del trust secondo modelli di civil law sarebbe destinato all'insuccesso.
Per quanto riguarda i rapporti con l'ordinamento italiano vi sono diversi punti da affrontare. Il primo punto riguarda il soggetto legittimato passivamente all'azione di riduzione. Se si qualifica il trust per atto tra vivi come liberalità atipica, l'azione di riduzione dovrebbe essere esercitata direttamente nei confronti del trustee, ma tale soluzione urta con il fatto che il destinatario finale è un soggetto diverso da esso. Inoltre se il beneficiario finale del trust è un legittimario egli non sarebbe tenuto all'imputazione dei beni, in quanto sul piano formale figurerebbe quale donatario il trustee. Inoltre il legittimario leso non avrebbe alcuna azione nei confronti del destinatario finale del trust in quanto egli non può essere considerato alla stregua del donatario.
A seguito di queste difficoltà si è prospettato un ripensamento del rapporto tra i trusts liberali e la disciplina della tutela dei legittimari. La soluzione del problema non può essere trovata applicando formalisticamente i principi del diritto successorio.
Anche nel trust si deve riconoscere la possibilità di agire direttamente contro il beneficiario, soggetto al quale l'attribuzione è effettivamente destinata. La destinazione finale è già fotografata nell'assetto di interessi ipotizzato dal settlor al momento dell'istituzione del trust. Il legittimario leso o pretermesso deve poter agire direttamente contro il beneficiario del trust. È da chiedersi contro chi debba essere diretta l'azione di riduzione quando il bene non sia stato ancora assegnato al beneficiario, in tal caso il soggetto passivo dell'azione di riduzione andrebbe ricercato nella persona del trustee.
3.L'ARRICCHIMENTO DEL DESTINATARIO FINALE. MODALITA' OPERATIVE DELLA RIDUZIONE DEL TRUST
Un secondo e duplice ordine di problemi riguarda il soggetto nei cui confronti si debba valutare l'arricchimento che consegue al trust, nonché quali siano le modalità operative dell'azione di riduzione. L'arricchimento deve essere valutato nei confronti del beneficiario finale e non del trustee. Il problema della sua legittimazione passiva va risolto sul piano della prevalenza del criterio giuridico economico rispetto a quello giuridico formale.
Un ulteriore problema attiene alla posizione del trust inter vivos soggetto a riduzione nell'ordine delle donazioni riducibili ex art. 559c.c. è necessario valutare da che momento si debba considerare avvenuta l'attribuzione patrimoniale per mezzo del trust. Se il settlor si è riservato la revoca la donazione si deve considerare effettuata nel momento della morte dello stesso soggetto. In ogni altra ipotesi il momento da considerare ai fini dell'art.559c.c. sarà quello dell'istituzione del trust.
4.IL CONFERIMENTO IN TRUST DELLA QUOTA DI LEGITTIMA. IL TRUST DISCREZIONALE E LA LEGITTIMAZIONE ATTIVA DEI POTENZIALI BENEFICIARI
Un ulteriore problema riguarda l'ipotesi di costituzione in trust della quota di legittima. In questa ipotesi al legittimario non spetta alcun potere di natura reale sui beni che costituiscono la quota di legittima. Si tratta di vedere se sia stato violato il principio dell'intangibilità della quota di legittima che vieta al testatore di imporre pesi o condizioni sulla quota spettante ai legittimari.
Con il trust il legittimario assume una posizione sostanziale di un legatario delle rendite dei beni costituenti la quota di legittima, motivo per cui appare difficile non riconoscergli l'azione di riduzione, sempre che il legittimario non abbia l'opzione tra il conseguimento delle rendite e la rinuncia alle stesse al fine di chiedere la legittima.
Ulteriore difficoltà presenta la tutela dei legittimari quando si tratta di un trust discrezionale, dove il trustee ha il potere di designare i beneficiari o di determinare l'entità delle quote.
Prima di tutto bisogna verificare che tal tipo di trust non contrasti con il principio del nostro ordinamento che vieta le disposizioni testamentarie e le donazioni rimesse all'arbitrio altrui. Risulta necessario che i beneficiari vanno scelti tra un gruppo di persone indicate dal settlor.
Dunque il trustee non ha potere di designare i beneficiari o determinare le quote al di fuori delle ipotesi consentite dagli artt.631 e 778c.c.
Si è suggerito di riconoscere inoltre anche a qualunque potenziale beneficiario di un trust discrezionale, il diritto di agire per la reintegrazione della quota di legittima, ricostruendo il trust discrezionale alla stregua di un atto di liberalità.
La Convenzione dell'Aja fa espressamente salvi i limiti della legge nazionale in materia di testamento e di devoluzione dei beni ereditari, con specifica attenzione ai diritti dei legittimari.
Una disposizione testamentaria istitutiva di un trust è soggetta all'azione di riduzione ex art.558c.c. in caso di lesione della quota di legittima. Ugualmente è soggetta a riduzione la costituzione di un trust per atto tra vivi lesivo della legittima nel caso in cui si tratti di donazione indiretta.
Dunque un trust inter vivos o mortis causa lesivo della legittima non è nullo per contrarietà all'ordine pubblico, ma è semplicemente riducibile a domanda dei legittimari nella misura in cui sia necessario per la reintegrazione della quota di riserva.
Una sentenza del tribunale di Lucca del 1997 costituisce il punto di arrivo di una lenta evoluzione che ha portato a un radicale mutamento di prospettiva della giurisprudenza nei confronti dei trusts costituiti nei paesi di common law, dal momento in cui ritiene ammissibili ma soggette a riduzione le disposizioni testamentarie redatte all'estero che istituiscono un trust di ultima volontà in violazione delle norme sulla successione necessaria. Nel caso di specie un cittadino italiano naturalizzato americano aveva disposto dell'intero patrimonio a favore di un fiduciario il quale avrebbe dovuto amministrarlo a sua assoluta e insindacabile discrezione per tutta la durata della vita dell'unica figlia del de cuius e fino al compimento del 25esimo anno di età da parte dell'ultimo dei figli di quest'ultima; in tale momento ciò che sarebbe rimasto del patrimonio del de cuius avrebbe dovuto essere diviso in parti uguali tra i nipoti ancora viventi. Fino a quel momento alla figlia e ai nipoti andava corrisposta una rendita a titolo di sostegno e mantenimento.
Il tribunale di Lucca ne ha ammesso la compatibilità con i principi generali dell'ordinamento italiano, in quanto la violazione dei diritti dei legittimari non comporta la nullità del testamento neanche limitatamente alle disposizioni lesive della legittima, stante la possibilità di applicare le disposizioni del diritto interno strumentali alla reintegrazione della quota di riserva dei legittimari secondo quanto previsto dall'art.15 della convenzione di l'Aja.
3.LE DIFFICOLTA' DELL'AZIONE DI RIDUZIONE . LA LEGITTIMAZIONE PASSIVA DEL DESTINATARIO FINALE
L'art.15 della convenzione de l'Aja risolve a livello di principio il problema del raccordo del riconoscimento degli effetti dei trusts costituiti nei paesi di common law con la tutela dei legittimari.
Il trust testamentario deve rispettare le norme sulla legittima e non può essere utilizzato per diseredare un figlio o il coniuge. Per quanto riguarda il trust per atto tra vivi la corte di cassazione francese stabilisce che si tratta di una donazione indiretta e dunque l'attribuzione di un bene al trustee è riducibile in caso di lesione della legittima. Tale ricostruzione del trust come liberalità atipica sarebbe in contrasto con il favore della convenzione. La ricostruzione del trust secondo modelli di civil law sarebbe destinato all'insuccesso.
Per quanto riguarda i rapporti con l'ordinamento italiano vi sono diversi punti da affrontare. Il primo punto riguarda il soggetto legittimato passivamente all'azione di riduzione. Se si qualifica il trust per atto tra vivi come liberalità atipica, l'azione di riduzione dovrebbe essere esercitata direttamente nei confronti del trustee, ma tale soluzione urta con il fatto che il destinatario finale è un soggetto diverso da esso. Inoltre se il beneficiario finale del trust è un legittimario egli non sarebbe tenuto all'imputazione dei beni, in quanto sul piano formale figurerebbe quale donatario il trustee. Inoltre il legittimario leso non avrebbe alcuna azione nei confronti del destinatario finale del trust in quanto egli non può essere considerato alla stregua del donatario.
A seguito di queste difficoltà si è prospettato un ripensamento del rapporto tra i trusts liberali e la disciplina della tutela dei legittimari. La soluzione del problema non può essere trovata applicando formalisticamente i principi del diritto successorio.
Anche nel trust si deve riconoscere la possibilità di agire direttamente contro il beneficiario, soggetto al quale l'attribuzione è effettivamente destinata. La destinazione finale è già fotografata nell'assetto di interessi ipotizzato dal settlor al momento dell'istituzione del trust. Il legittimario leso o pretermesso deve poter agire direttamente contro il beneficiario del trust. È da chiedersi contro chi debba essere diretta l'azione di riduzione quando il bene non sia stato ancora assegnato al beneficiario, in tal caso il soggetto passivo dell'azione di riduzione andrebbe ricercato nella persona del trustee.
3.L'ARRICCHIMENTO DEL DESTINATARIO FINALE. MODALITA' OPERATIVE DELLA RIDUZIONE DEL TRUST
Un secondo e duplice ordine di problemi riguarda il soggetto nei cui confronti si debba valutare l'arricchimento che consegue al trust, nonché quali siano le modalità operative dell'azione di riduzione. L'arricchimento deve essere valutato nei confronti del beneficiario finale e non del trustee. Il problema della sua legittimazione passiva va risolto sul piano della prevalenza del criterio giuridico economico rispetto a quello giuridico formale.
Un ulteriore problema attiene alla posizione del trust inter vivos soggetto a riduzione nell'ordine delle donazioni riducibili ex art. 559c.c. è necessario valutare da che momento si debba considerare avvenuta l'attribuzione patrimoniale per mezzo del trust. Se il settlor si è riservato la revoca la donazione si deve considerare effettuata nel momento della morte dello stesso soggetto. In ogni altra ipotesi il momento da considerare ai fini dell'art.559c.c. sarà quello dell'istituzione del trust.
4.IL CONFERIMENTO IN TRUST DELLA QUOTA DI LEGITTIMA. IL TRUST DISCREZIONALE E LA LEGITTIMAZIONE ATTIVA DEI POTENZIALI BENEFICIARI
Un ulteriore problema riguarda l'ipotesi di costituzione in trust della quota di legittima. In questa ipotesi al legittimario non spetta alcun potere di natura reale sui beni che costituiscono la quota di legittima. Si tratta di vedere se sia stato violato il principio dell'intangibilità della quota di legittima che vieta al testatore di imporre pesi o condizioni sulla quota spettante ai legittimari.
Con il trust il legittimario assume una posizione sostanziale di un legatario delle rendite dei beni costituenti la quota di legittima, motivo per cui appare difficile non riconoscergli l'azione di riduzione, sempre che il legittimario non abbia l'opzione tra il conseguimento delle rendite e la rinuncia alle stesse al fine di chiedere la legittima.
Ulteriore difficoltà presenta la tutela dei legittimari quando si tratta di un trust discrezionale, dove il trustee ha il potere di designare i beneficiari o di determinare l'entità delle quote.
Prima di tutto bisogna verificare che tal tipo di trust non contrasti con il principio del nostro ordinamento che vieta le disposizioni testamentarie e le donazioni rimesse all'arbitrio altrui. Risulta necessario che i beneficiari vanno scelti tra un gruppo di persone indicate dal settlor.
Dunque il trustee non ha potere di designare i beneficiari o determinare le quote al di fuori delle ipotesi consentite dagli artt.631 e 778c.c.
Si è suggerito di riconoscere inoltre anche a qualunque potenziale beneficiario di un trust discrezionale, il diritto di agire per la reintegrazione della quota di legittima, ricostruendo il trust discrezionale alla stregua di un atto di liberalità.
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L'ESCLUSIONE DALLA VOCAZIONE EREDITARIA. L'INDEGNITA' A SUCCEDERE
1.IL PROBLEMA DELLA NATURA E DEL MODO DI OPERARE DELL'INDEGNITA'
La disciplina dell'indegnità di succedere aveva creato nel codice del 1865 non poche perplessità di cui si avvertì l'eco nei lavori preparatori del nuovo codice civile del 1942 dove, nella relazione al libro delle successioni e donazioni si precisava che l'indegnità non determinava una vera e propria incapacità ma rappresentava una causa di esclusione operativa in virtù di una sentenza del giudice.
Tuttavia di fronte ai nuovi artt.463-466c.c. si è continuato a discutere all'incirca negli stessi termini.
Una parte della dottrina si chiede tuttora se l'indegno non sia per caso un incapace, magari relativo, per cui l'indegnità si tradurrebbe in un pena privata per taluni comportamenti nei confronti di dati soggetti o lesivi della libertà testamentaria o della volontà espressa del testatore.
La diversa sistemazione della materia comporta conseguenze pratiche assai rilevanti: se si ritiene che l'indegno sia un incapace di succedere si deve anche ammettere che l'indegnità opera automaticamente. Se invece servisse l'intervento del giudice significherebbe che l'indegno acquista legittimamente, ma poi il suo acquisto viene caducato retroattivamente per effetto di una sentenza costitutiva.
2.L'INDEGNITA' E LE SANZIONI DI DIRITTO PRIVATO. IL SISTEMA DEGLI ARTT.463-466C.C. L'AUTONOMA COLLOCAZIONE DELLA MATERIA E LA RIMODULAZIONE DELLA DISCIPLINA DELLA RIABILITAZIONE DELL'INDEGNO. IL SENSO DELLA RESTITUZIONE DEI FRUTTI E DELLA RIABILITAZIONE DELL'INDEGNO
Per risolvere il problema è necessaria una rimeditazione della funzione dell'indegnità nella vicenda successoria. Porre l'esclusione dall'eredità o dal legato alla stregua di una sanzione a carico dell'indegno non si presenta incompatibile con il sistema degli artt.463-466, per di più il carattere sanzionatorio troverebbe una conferma proprio nel fatto che l''esclusione dall'eredità non si estende ai suoi discendenti i quali godono del diritto di rappresentazione. In terzo luogo la pena sarebbe di diritto privato, in quanto il de cuius può rimuoverne in tutto o in parte le conseguenze. Tuttavia tale ricostruzione non chiarisce il problema del modo di operare dell'indegnità. Oltre alle difficoltà di ricostruire una nozione unitaria di pena privata, il problema si sposta quando bisogna stabilire se l'indegnità sia una pena legale o giudiziale, anche a causa dell'espressione neutra dell'art.463 che non cita l'intervento del giudice o l'automatica operatività. Se si intendeva rendere operante l'indegnità solo a seguito di una sentenza costitutiva lo si sarebbe dovuto dire chiaramente, tanto più che l'art.802 esplicita l'esigenza del ricorso al giudice a proposito della revoca della donazione per ingratitudine.
L'elemento più appariscente a favore della tesi che l'indegno non è un incapace rimane quello che si può desumere dalla differente collocazione della materia rispetto al codice del 1865, dove l'indegnità non sembrava avere autonomia a livello di sistema. Nel testo dell'attuale art.463c.c. scompare ogni riferimento all'incapacità di succedere operandosi anche una separazione formale.
Il problema sorge quando ci si accorge che la nuova formulazione altro non sarebbe che un mero aggiustamento tecnico. Il legislatore del 1942 ha modificato il regime di riabilitazione, ritenuto eccessivamente rigoroso dalla dottrina successiva al codice del 1865, introducendo la riabilitazione parziale, tacita o indiretta.
La mancanza di ogni riferimento all'incapacità di succedere non è di per sé un elemento decisivo a favore della tesi che ritiene necessario il ricorso al giudice. Sono necessari ulteriori elementi precisi e concordanti, difficili da ricercare nel sistema degli artt.463-466c.c. L'unica spiegazione razionale dell'art.364 è quella che la legge considera l'indegno alle stregua di un possessore di mala fede, per avere con il suo comportamento dato causa all'indegnità. Non minori problemi presenta l'art.466 dove si parla di “ammissione a succedere”, come se senza la riabilitazione l'indegno non avrebbe avuto nemmeno il diritto di accettare l'eredità. Per converso la disponibilità dell'interesse a far valere l'esclusione fa ritenere più plausibile un intervento del giudice per stabilirla, senza che essa operi ope legis.
Di fronte ad una normativa poco chiara, le soluzioni diverse diventano una scelta irrazionale rimessa agli umori e ai convinciamenti personali.
3.LE SINGOLE CAUSE DI INDEGNITA':SISTEMA E PRINCIPALI INNOVAZIONI DELL'ART.463. IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA INTERRUZIONE VOLONTARIA DELLA GRAVIDANZA E INDEGNITA'
L'art.463c.c. regola le singole cause di indegnità in modo più articolato rispetto al codice del 1865, pur rimanendo la tassatività dei casi e la ripartizione delle cause di indegnità in due gruppi a seconda che si tratti di attentati alla personalità fisica o morale oppure alla libertà di testare del de cuius.
Per quanto riguarda i comportamenti che si sostanzino in un attentato alla libertà testamentaria del de cuius, è stata prevista quale nuova e doppia causa di indegnità l'ipotesi di formazione o di uso consapevole di un testamento falso. E' stato compreso il dolo accanto alla violenza nel novero degli atti dell'indegno contro la libertà di testare del de cuius, in modo da allineare la disciplina all'art.624c.c. che consente a chiunque abbia interesse di impugnare il testamento.
Per quanto riguarda i comportamenti che si sostanzino in attentato alla personalità fisica o morale del de cuius, alle ipotesi tradizionali di omicidio volontario consumato o tentato e di calunnia sono state aggiunte la falsa testimonianza in giudizio penale e la generica previsione dell'aver commesso un fatto al quale la legge penale dichiara applicabili le disposizioni sull'omicidio. L'omicidio volontario costituisce causa di indegnità purché non ricorra alcuna delle cause che escludono la punibilità a norma della legge penale. I comportamenti sono rilevanti inoltre anche se commessi a danno del coniuge o dei discendenti o ascendenti del de cuius.
Negli anni ottanta ci si chiedeva se la natura tassativa delle cause di indegnità non fosse di ostacolo a ricondurre sotto la previsione dell'omicidio tentato o commesso l'ipotesi di interruzione volontaria della gravidanza, ogni qual volta essa fosse compiuta al di fuori delle garanzie previste dalla L.n.194/1978. l'interruzione di gravidanza al di fuori delle garanzie suddette comporta un'effettiva, indegnità della donna nei confronti del padre del nascituro o degli eventuali altri ascendenti, in aggiunta alla sanzioni penali previste.
Per quanto si potrebbe comunque annoverare tale ipotesi tra i comportamenti dell'indegno che costituiscono attentato alla personalità anche morale del de cuius.
La disciplina dell'indegnità è richiamata anche quale causa di revoca dell'adozione per fatto imputabile all'adottato o all'adottante e anche in ordine alla revoca della donazione per ingratitudine.
4.IL PROBLEMA DELL'ACCERTAMENTO GIUDIZIALE DELLE CAUSE DI INDEGNITA'
L'art.463c.c non stabilisce se i fatti che danno luogo all'esclusione dalla successione debbano essere preventivamente accertati dal giudice. Questo riscontro è invece esplicitato nelle ipotesi sub n.3 per quanto concerne una sentenza che dichiari la calunnia o la falsa testimonianza in processo penale, dove la maggioranza degli interpreti nega che basti la semplice partecipazione dell'indegno al giudizio penale instauratosi nei confronti del de cuius.
Tuttavia negli altri casi non vi è alcun accenno alla necessarietà di un accertamento giudiziale dei fatti. Ma se per ragioni di omogeneità si ritenesse necessario un accertamento giudiziale, sarebbe poi superfluo pretendere una seconda pronuncia per l'esclusione dalla successione. A conciliare le due testi opposte si è detto che l'esclusione dalla successione sarebbe automatica una volta accertato in giudizio il fatto che dà causa all'indegnità. Cosicché una successiva sentenza che dichiari l'esclusione dall'eredità avrebbe valore dichiarativo e l'azione per il recupero dei beni diventerebbe imprescrittibile.
Se si ritiene che l'esclusione dalla successione avvenga ipso iure solo una volta accertata ope iudicis la causa di indegnità si finisce inevitabilmente per allineare l'indegnità alla perdita dei diritti successori verso la persona offesa di cui all'abrogato art.541,2'comma c.p. Tuttavia le ipotesi sembrano essere diverse in quanto nelle ipotesi previste dal codice penale manca la disponibilità dell'interesse, sicché non è ammesso il perdono del de cuius. Alla luce del nuovo codice di procedura penale è da rivedere anche la tesi che stabilisce la normale competenza del giudice penale ad accertare le cause di indegnità. Con la scomparsa della pregiudiziale penale non si può più negare al giudice civile una propria autonoma competenza ad accertare le cause di indegnità.
La questione del rapporto tra giudizio penale e civile ha perduto ulteriormente importanza dopo la novella del processo civile in quanto il sistema processuale si articola oggi sul principio di autonomia dei due giudizi.
Il raccordo tra giudizio penale e civile determinava anche la coincidenza del termine di prescrizione dell'azione di indegnità con quello stabilito per il reato.
5.ANCORA SUL MODO DI OPERARE L'INDEGNITA'. IL SIGNIFICATO DELLA SUCCESSIONE PER RAPPRESENTAZIONE DEI DISCENDENTI DELL'INDEGNO
Il problema del modo di operare dell'indegnità sembra destinato a rimanere insolubile, ma forse ciò è la conseguenza del fatto che si è sempre cercata la soluzione unicamente all'interno del sistema degli artt.463-466 trascurando la disciplina della successione per rappresentazione. Essendo l'indegno completamente escluso dalla successione, l'indegnità va collocata sullo stesso piano della premorienza o dell'assenza poiché l'indegno è un soggetto che non può accettare l'eredità o il legato.
Per affermare il contrario bisognerebbe dimostrare che l'indegnità esclude anche la successione per rappresentazione, ma tale soluzione non è suffragata da alcun elemento testuale o sistematico.
Ammettendo dunque la successione per rappresentazione a favore dei discendenti dell'indegno appare un controsenso ancorare la vocazione degli stessi all'esclusione ope iudicis del loro ascendente. Una conferma di tale tesi sembra trovarsi nel fatto che gli acquisti fatti dai terzi dall'indegno siano equiparabili a quelli fatti dall'erede apparente. Se l'indegno è equiparato all'erede apparente significa che egli non ha acquistato alcun diritto sui beni ereditari, avendo al più esercitato un mero potere di fatto. Se si ritiene che l'esclusione dalla successione sia automatica, si deve convenire che l'indegnità finisce per avvicinarsi sul piano operativo all'incapacità di succedere.
Ciò non significa affatto che l'indegnità sia una sorta di incapacità di succedere, stanti le differenze concettuali tra i due istituti.
La disciplina dell'indegnità di succedere aveva creato nel codice del 1865 non poche perplessità di cui si avvertì l'eco nei lavori preparatori del nuovo codice civile del 1942 dove, nella relazione al libro delle successioni e donazioni si precisava che l'indegnità non determinava una vera e propria incapacità ma rappresentava una causa di esclusione operativa in virtù di una sentenza del giudice.
Tuttavia di fronte ai nuovi artt.463-466c.c. si è continuato a discutere all'incirca negli stessi termini.
Una parte della dottrina si chiede tuttora se l'indegno non sia per caso un incapace, magari relativo, per cui l'indegnità si tradurrebbe in un pena privata per taluni comportamenti nei confronti di dati soggetti o lesivi della libertà testamentaria o della volontà espressa del testatore.
La diversa sistemazione della materia comporta conseguenze pratiche assai rilevanti: se si ritiene che l'indegno sia un incapace di succedere si deve anche ammettere che l'indegnità opera automaticamente. Se invece servisse l'intervento del giudice significherebbe che l'indegno acquista legittimamente, ma poi il suo acquisto viene caducato retroattivamente per effetto di una sentenza costitutiva.
2.L'INDEGNITA' E LE SANZIONI DI DIRITTO PRIVATO. IL SISTEMA DEGLI ARTT.463-466C.C. L'AUTONOMA COLLOCAZIONE DELLA MATERIA E LA RIMODULAZIONE DELLA DISCIPLINA DELLA RIABILITAZIONE DELL'INDEGNO. IL SENSO DELLA RESTITUZIONE DEI FRUTTI E DELLA RIABILITAZIONE DELL'INDEGNO
Per risolvere il problema è necessaria una rimeditazione della funzione dell'indegnità nella vicenda successoria. Porre l'esclusione dall'eredità o dal legato alla stregua di una sanzione a carico dell'indegno non si presenta incompatibile con il sistema degli artt.463-466, per di più il carattere sanzionatorio troverebbe una conferma proprio nel fatto che l''esclusione dall'eredità non si estende ai suoi discendenti i quali godono del diritto di rappresentazione. In terzo luogo la pena sarebbe di diritto privato, in quanto il de cuius può rimuoverne in tutto o in parte le conseguenze. Tuttavia tale ricostruzione non chiarisce il problema del modo di operare dell'indegnità. Oltre alle difficoltà di ricostruire una nozione unitaria di pena privata, il problema si sposta quando bisogna stabilire se l'indegnità sia una pena legale o giudiziale, anche a causa dell'espressione neutra dell'art.463 che non cita l'intervento del giudice o l'automatica operatività. Se si intendeva rendere operante l'indegnità solo a seguito di una sentenza costitutiva lo si sarebbe dovuto dire chiaramente, tanto più che l'art.802 esplicita l'esigenza del ricorso al giudice a proposito della revoca della donazione per ingratitudine.
L'elemento più appariscente a favore della tesi che l'indegno non è un incapace rimane quello che si può desumere dalla differente collocazione della materia rispetto al codice del 1865, dove l'indegnità non sembrava avere autonomia a livello di sistema. Nel testo dell'attuale art.463c.c. scompare ogni riferimento all'incapacità di succedere operandosi anche una separazione formale.
Il problema sorge quando ci si accorge che la nuova formulazione altro non sarebbe che un mero aggiustamento tecnico. Il legislatore del 1942 ha modificato il regime di riabilitazione, ritenuto eccessivamente rigoroso dalla dottrina successiva al codice del 1865, introducendo la riabilitazione parziale, tacita o indiretta.
La mancanza di ogni riferimento all'incapacità di succedere non è di per sé un elemento decisivo a favore della tesi che ritiene necessario il ricorso al giudice. Sono necessari ulteriori elementi precisi e concordanti, difficili da ricercare nel sistema degli artt.463-466c.c. L'unica spiegazione razionale dell'art.364 è quella che la legge considera l'indegno alle stregua di un possessore di mala fede, per avere con il suo comportamento dato causa all'indegnità. Non minori problemi presenta l'art.466 dove si parla di “ammissione a succedere”, come se senza la riabilitazione l'indegno non avrebbe avuto nemmeno il diritto di accettare l'eredità. Per converso la disponibilità dell'interesse a far valere l'esclusione fa ritenere più plausibile un intervento del giudice per stabilirla, senza che essa operi ope legis.
Di fronte ad una normativa poco chiara, le soluzioni diverse diventano una scelta irrazionale rimessa agli umori e ai convinciamenti personali.
3.LE SINGOLE CAUSE DI INDEGNITA':SISTEMA E PRINCIPALI INNOVAZIONI DELL'ART.463. IL PROBLEMA DEL RAPPORTO TRA INTERRUZIONE VOLONTARIA DELLA GRAVIDANZA E INDEGNITA'
L'art.463c.c. regola le singole cause di indegnità in modo più articolato rispetto al codice del 1865, pur rimanendo la tassatività dei casi e la ripartizione delle cause di indegnità in due gruppi a seconda che si tratti di attentati alla personalità fisica o morale oppure alla libertà di testare del de cuius.
Per quanto riguarda i comportamenti che si sostanzino in un attentato alla libertà testamentaria del de cuius, è stata prevista quale nuova e doppia causa di indegnità l'ipotesi di formazione o di uso consapevole di un testamento falso. E' stato compreso il dolo accanto alla violenza nel novero degli atti dell'indegno contro la libertà di testare del de cuius, in modo da allineare la disciplina all'art.624c.c. che consente a chiunque abbia interesse di impugnare il testamento.
Per quanto riguarda i comportamenti che si sostanzino in attentato alla personalità fisica o morale del de cuius, alle ipotesi tradizionali di omicidio volontario consumato o tentato e di calunnia sono state aggiunte la falsa testimonianza in giudizio penale e la generica previsione dell'aver commesso un fatto al quale la legge penale dichiara applicabili le disposizioni sull'omicidio. L'omicidio volontario costituisce causa di indegnità purché non ricorra alcuna delle cause che escludono la punibilità a norma della legge penale. I comportamenti sono rilevanti inoltre anche se commessi a danno del coniuge o dei discendenti o ascendenti del de cuius.
Negli anni ottanta ci si chiedeva se la natura tassativa delle cause di indegnità non fosse di ostacolo a ricondurre sotto la previsione dell'omicidio tentato o commesso l'ipotesi di interruzione volontaria della gravidanza, ogni qual volta essa fosse compiuta al di fuori delle garanzie previste dalla L.n.194/1978. l'interruzione di gravidanza al di fuori delle garanzie suddette comporta un'effettiva, indegnità della donna nei confronti del padre del nascituro o degli eventuali altri ascendenti, in aggiunta alla sanzioni penali previste.
Per quanto si potrebbe comunque annoverare tale ipotesi tra i comportamenti dell'indegno che costituiscono attentato alla personalità anche morale del de cuius.
La disciplina dell'indegnità è richiamata anche quale causa di revoca dell'adozione per fatto imputabile all'adottato o all'adottante e anche in ordine alla revoca della donazione per ingratitudine.
4.IL PROBLEMA DELL'ACCERTAMENTO GIUDIZIALE DELLE CAUSE DI INDEGNITA'
L'art.463c.c non stabilisce se i fatti che danno luogo all'esclusione dalla successione debbano essere preventivamente accertati dal giudice. Questo riscontro è invece esplicitato nelle ipotesi sub n.3 per quanto concerne una sentenza che dichiari la calunnia o la falsa testimonianza in processo penale, dove la maggioranza degli interpreti nega che basti la semplice partecipazione dell'indegno al giudizio penale instauratosi nei confronti del de cuius.
Tuttavia negli altri casi non vi è alcun accenno alla necessarietà di un accertamento giudiziale dei fatti. Ma se per ragioni di omogeneità si ritenesse necessario un accertamento giudiziale, sarebbe poi superfluo pretendere una seconda pronuncia per l'esclusione dalla successione. A conciliare le due testi opposte si è detto che l'esclusione dalla successione sarebbe automatica una volta accertato in giudizio il fatto che dà causa all'indegnità. Cosicché una successiva sentenza che dichiari l'esclusione dall'eredità avrebbe valore dichiarativo e l'azione per il recupero dei beni diventerebbe imprescrittibile.
Se si ritiene che l'esclusione dalla successione avvenga ipso iure solo una volta accertata ope iudicis la causa di indegnità si finisce inevitabilmente per allineare l'indegnità alla perdita dei diritti successori verso la persona offesa di cui all'abrogato art.541,2'comma c.p. Tuttavia le ipotesi sembrano essere diverse in quanto nelle ipotesi previste dal codice penale manca la disponibilità dell'interesse, sicché non è ammesso il perdono del de cuius. Alla luce del nuovo codice di procedura penale è da rivedere anche la tesi che stabilisce la normale competenza del giudice penale ad accertare le cause di indegnità. Con la scomparsa della pregiudiziale penale non si può più negare al giudice civile una propria autonoma competenza ad accertare le cause di indegnità.
La questione del rapporto tra giudizio penale e civile ha perduto ulteriormente importanza dopo la novella del processo civile in quanto il sistema processuale si articola oggi sul principio di autonomia dei due giudizi.
Il raccordo tra giudizio penale e civile determinava anche la coincidenza del termine di prescrizione dell'azione di indegnità con quello stabilito per il reato.
5.ANCORA SUL MODO DI OPERARE L'INDEGNITA'. IL SIGNIFICATO DELLA SUCCESSIONE PER RAPPRESENTAZIONE DEI DISCENDENTI DELL'INDEGNO
Il problema del modo di operare dell'indegnità sembra destinato a rimanere insolubile, ma forse ciò è la conseguenza del fatto che si è sempre cercata la soluzione unicamente all'interno del sistema degli artt.463-466 trascurando la disciplina della successione per rappresentazione. Essendo l'indegno completamente escluso dalla successione, l'indegnità va collocata sullo stesso piano della premorienza o dell'assenza poiché l'indegno è un soggetto che non può accettare l'eredità o il legato.
Per affermare il contrario bisognerebbe dimostrare che l'indegnità esclude anche la successione per rappresentazione, ma tale soluzione non è suffragata da alcun elemento testuale o sistematico.
Ammettendo dunque la successione per rappresentazione a favore dei discendenti dell'indegno appare un controsenso ancorare la vocazione degli stessi all'esclusione ope iudicis del loro ascendente. Una conferma di tale tesi sembra trovarsi nel fatto che gli acquisti fatti dai terzi dall'indegno siano equiparabili a quelli fatti dall'erede apparente. Se l'indegno è equiparato all'erede apparente significa che egli non ha acquistato alcun diritto sui beni ereditari, avendo al più esercitato un mero potere di fatto. Se si ritiene che l'esclusione dalla successione sia automatica, si deve convenire che l'indegnità finisce per avvicinarsi sul piano operativo all'incapacità di succedere.
Ciò non significa affatto che l'indegnità sia una sorta di incapacità di succedere, stanti le differenze concettuali tra i due istituti.
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FONTI DELLA VOCAZIONE EREDITARIA.DIVIETO DEI PATTI SUCCESSORI E LE ALTERNATIVE CONVENZIONALI AL TESTAMENTO. IL TRUST.
1.IL DIVIETO DEI PATTI SUCCESSORI E LE SOLUZIONI NEGOZIALI ALTERNATIVE AL TESTAMENTO. LE SOLUZIONI INTERNE E IL TRUST.
L'art.458 pone il divieto di compiere patti successori, sulla base di una tradizione romanistica accolta in modo acritico. La dottrina sta rivedendo tale dogma che esclude ogni altra fonte rispetto al testamento. E' avvenuto di recente il riconoscimento legislativo degli effetti dei trusts costituiti nei paesi di common law attraverso la ratifica e l'esecuzione del 1989 della convenzione adottata a l'Aja nel 1985.
Diventa più evidente così nel nostro ordinamento il problema di soluzioni negoziali alternative al testamento. Primo caso: trust for sale alla fine del XIX secolo gli viene data soluzione negativa dalla corte d'appello di Cagliari. Secondo caso: nel 1909 la corte di cassazione di Napoli valuta come amministrazione a scopo di conservazione del patrimonio nell'interesse dei successivi chiamati a godere un trust che disponeva un legato periodico. Secondo Carlo Manenti, sempre nel 1909, il contratto di assicurazione sulla vita a favore di terzi si concretizzava in un disposizione di ultima volontà alternativa alle forme tipiche di testamento previste in quanto l'acquisto del terzo si concretizzava solo alla morte dell'assicurato e fino a quel momento l'assicurato aveva potere di revoca. La tesi rimane isolata nella dottrina dell'epoca che la ritiene viziata per una sovrapposizione di causa e termine essendo la morte soltanto il momento di consolidazione di un contratto già perfezionatosi nel contratto di assicurazione.
La tesi di Manenti è stata riscoperta dopo circa mezzo secolo dal tribunale di Catania circa l'emissione di un libretto di deposito nominativo a favore di un terzo con la riserva di prelevare le somme residue solo dopo la morte del depositante. La sentenza stabilisce l'obbligo per la banca di dare le somme al terzo e l'annotatore della sentenza ritiene che si tratti di contratto a favore di un terzo per perseguire una finalità tipica di atti mortis causa con conseguente nullità del deposito per difetto di forma ad substantiam.
Tale fattispecie era analoga a quella esaminata dalla Corte d'Appello di New York nel 1904 e passata alla storia con il nome di Totten trust dove era avvenuto ugualmente un deposito con trust a favore di un terzo, con la facoltà di revoca del beneficio.
Le due fattispecie sono configurabili come savings bank trust con i soggetti di settlor nel depositante, di trustee nella baca e di beneficiario nel terzo. Il costituente si riserva il potere di revoca mantenendo la disponibilità delle somme e compie dunque un atto inter vivos con cui dispone del proprio patrimonio post mortem. Si tratta di un contratto a favore di un terzo in cui la prestazione va compiuta alla morte dello stipulante(art.1412c.c.). Si tratta di un atto di liberalità a causa di morte in deroga al divieto di patti successori?
2.LA DISTINZIONE TRA ATTI MORTIS CAUSA E ATTI POST MORTEM. I REQUISITI DEI NEGOZI TRANSMORTE.
L'atto mortis causa è l'atto diretto a regolare i rapporti patrimoniali e non patrimoniali del soggetto per il tempo e in dipendenza della sua morte, senza che si produca alcun effetto prima di tale evento. Esso ha come contenuto tipico il regolamento di una situazione rilevante giuridicamente dopo la morte del suo autore.
Negli atti post mortem l'evento della morte rappresenta invece soltanto la condizione o il termine di efficacia dell'attribuzione che è attuale e non limitata al residuo dopo l'evento della morte.
Sulla base di tale distinzione si è stabilito che non costituiscono atti mortis causa ma atti inter vivos aventi a oggetto beni futuri i patti successori dispositivi e rinunciativi(vietati dall'art. 458). Si sono individuati una serie di atti di natura contrattuale con la funzione di alternativa convenzionale al testamento i quali permettono: il controllo della qualità del soggetto beneficiario e il mantenimento e la formazione educativa spirituale e professionale di determinate persone permettendo anche una diversificazione dei beni in vista del tipo di trasferimento più idoneo rispetto alla loro natura.
Tali soluzioni contrattuali alternative al testamento dirette a regolare situazioni patrimoniali post mortem sono dette successioni anomale tra cui la dottrina ha individuato alcune figure tipiche tutte caratterizzate dalla coesistenza di tre elementi: 1. cessazione dell'appartenenza del bene al disponente dal momento della stipula. 2. differimento dell'acquisto da parte del beneficiario al momento della morte del disponente 3. riserva a favore del disponente del potere di revoca.
Si distinguono ulteriormente figure indicate come negozi post mortem che presentano solo i primi due requisiti, non essendo revocabili e in cui l'immediata operatività dell'attribuzione impedisce che si possa parlare di atto mortis causa, estraneo dunque al divieto di patti successori.
3.IL MANDATO POST MORTEM E IL CONTRATTO A FAVORE DI TERZI CON EFFETTI POST MORTEM
In questi casi è maggiore la possibilità di una violazione dei patti successori. Il mandato post mortem conferito per contratto si afferma essere nullo ex art.458c.c. Ogni qual volta ne sia pattuita l'irrevocabilità mentre è ritenuto valido il mandato post mortem exsequendum per il quale il mandatario è tenuto a consegnare al terzo l'oggetto di un'attribuzione patrimoniale già attuata e perfezionata durante la vita del mandante.
Per quanto concerne il contratto a favore di terzo con effetti post mortem una parte della dottrina ravvisa uno strumento per la realizzazione di un'attribuzione mortis causa, elusiva del divieto di patti successori.
All'ipotesi di un Totten trust è negata validità da chi ravvisa in essa gli estremi di una disposizione testamentaria indiretta inammissibile nel nostro ordinamento in quanto prima della morte del depositante nessuna modifica era intervenuta nel suo patrimonio.
4.IL RICONOSCIMENTO DEGLI EFFETTI DEL TRUST NEL DIRITTO SUCCESSORIO ITALIANO
Attraverso la L.n. 364/1989 non si verifica l'entrata a pieno titolo del trust nel nostro ordinamento, essendosi verificato il riconoscimento da parte del nostro ordinamento degli effetti dei trusts costituiti nei paesi di common law. Risulta non infondata l'ipotesi che l'esclusione del trust domestico o interno comporti una disparità di trattamento rilevante a livello di Legittimità costituzionale. Cesare Grassetti si augurava che nella riforma del diritto privato si tenesse presente l'istituto del trust, ma il suo messaggio non fu recepito. Tuttora il messaggio è attuale in quanto nel nostro ordinamento vale un riconoscimento di diritto internazionale privato per gli effetti dei trusts costituiti nei paesi di common law in quanto sono fatti salvi i limiti della legge nazionale in materia di testamento e di devoluzione dei beni ereditari, con specifica attenzione per i diritti dei legittimari.
Non sono mancati timori di un'applicazione eccessivamente rigida di tali limiti, che potrebbe portare all'assimilazione di un trust inter vivos ad un atto di liberalità atipico di cui all'art.809 c.c. Con la conseguenza di un possibile ricorso all'art.555c.c per la parte eccedente la quota disponibile, senza escludere la possibile violazione ex art. 458c.c. E i limiti della sostituzione fedecommissaria sanciti dall'attuale art.692c.c.
5.L'UTILIZZO DEL TRUST IN FUNZIONE PARASUCCESSORIA E IL DIVIETO DEI PATTI SUCCESSORI
Si è affermata la superiorità del trust rispetto agli strumenti tradizionali del diritto successorio, in conseguenza dello schema estremamente lineare e semplice dell'istituto.
Nel trust il settlor dispone di uno o più beni di sua proprietà a favore del trustee il quale è tenuto all'amministrazione di questi beni che rimangono separati dal suo patrimonio personale ed è inoltre tenuto ad assicurare le aspettative del destinatario finale dell'attribuzione. L'unico proprietario è il trustee che è però obbligato all'esercizio del diritto di proprietà e al suo trasferimento finale al beneficiario in conformità alle direttive del settlor.
Tra le utilizzazioni possibili:
1.il settlor dà incarico al trustee di amministrare le azioni di una società che costituisce il patrimonio di famiglia attribuendo le rendite ai figli, cui verrà trasferita la titolarità quando saranno in grado.
2.il settlor costituisce una parte del suo patrimonio in trust irrevocabile a titolo gratuito stabilendo che il trust cessi alla sua morte e che i beni prima costituiti in trust siano attribuiti a soggetti determinati e non più codificabili.
3.Il settlor costituisce in trust alcuni suoi beni incaricando il trustee di destinare le rendite a soggetti diversi successivamente, a ognuno dopo la morte dell'altro, attribuendo la proprietà dei beni al più giovane dei figli dell'ultimo dei soggetti.
4.Il settlor trasferisce in trust ad una società straniera l'intero pacchetto azionario di altra società straniera della quale è unico azionista e che è proprietaria di tutti i suoi beni siti in Italia con il patto che alla sua morte il trustee il trustee provvederà alla gestione della società di cui precedentemente il settlor era l'unico azionista destinando per venti anni le rendite ad un soggetto e destinando poi il pacchetto azionario a un ulteriore soggetto.
L'ultima ipotesi non violerebbe alcuna legge italiana in quanto nessuno dei passaggi costituisce atto simulato. La giurisprudenza francese ha ritenuto valido tale tipo di trust per due ragioni:perché manca qualsiasi accordo con il beneficiario futuro; perché il trasferimento del diritto non coincide con la morte del settlor ma si realizza in via definitiva durante la vita di lui.
L'immediatezza dell'acquisto in capo al trustee e l'unilateralità dell'atto porta ad affermare che anche il living trust, dove il settlor si riserva la libertà di revocare il beneficiario finale dell'attribuzione, non contrasterebbe con il divieto di patti successori, non essendovi alcun accordo diretto con il beneficiario finale.
A tale conclusione giunge anche la dottrina italiana la quale esclude che la caratteristica strutturale del trust possa dare vita a un patto successorio istitutivo e che si possa parlare di atto mortis causa.
Per avere una nullità generalizzata del trust si dovrebbe provare la contrarietà dell'istituto rispetto ai principi della successione mortis causa. Ma le strutture sono diverse, nel trust manca l'accordo tra il de cuius e il soggetto destinatario dell'attribuzione, che è elemento fondante del patto successorio istitutivo. Altro elemento caratterizzante il patto istitutivo è che l'oggetto della disposizione faccia parte dell'asse ereditario mentre nel trust i beni sono usciti definitivamente dal patrimonio del de cuius. In terzo luogo, almeno nel living trust, non è ravvisabile alcuna limitazione alla libertà testamentaria.
Dunque un contrasto del trust con i principi del diritto successorio non è ravvisabile col divieto di patti successori ma nel fatto che mediante in trust si potrebbe delineare un assetto di interessi mortis causa al di fuori del testamento, unico atto riconosciuto dal nostro ordinamento. Tuttavia, al momento della morte, i beni non appartengono all'asse ereditario, in quanto la proprietà è stata già trasferita in via definitiva e per atto inter vivos al trustee. Per questo motivo non vi è interferenza nemmeno con il divieto di disporre mortis causa del proprio patrimonio con uno strumento diverso dal testamento posto dall'art.457c.c.
L'art.458 pone il divieto di compiere patti successori, sulla base di una tradizione romanistica accolta in modo acritico. La dottrina sta rivedendo tale dogma che esclude ogni altra fonte rispetto al testamento. E' avvenuto di recente il riconoscimento legislativo degli effetti dei trusts costituiti nei paesi di common law attraverso la ratifica e l'esecuzione del 1989 della convenzione adottata a l'Aja nel 1985.
Diventa più evidente così nel nostro ordinamento il problema di soluzioni negoziali alternative al testamento. Primo caso: trust for sale alla fine del XIX secolo gli viene data soluzione negativa dalla corte d'appello di Cagliari. Secondo caso: nel 1909 la corte di cassazione di Napoli valuta come amministrazione a scopo di conservazione del patrimonio nell'interesse dei successivi chiamati a godere un trust che disponeva un legato periodico. Secondo Carlo Manenti, sempre nel 1909, il contratto di assicurazione sulla vita a favore di terzi si concretizzava in un disposizione di ultima volontà alternativa alle forme tipiche di testamento previste in quanto l'acquisto del terzo si concretizzava solo alla morte dell'assicurato e fino a quel momento l'assicurato aveva potere di revoca. La tesi rimane isolata nella dottrina dell'epoca che la ritiene viziata per una sovrapposizione di causa e termine essendo la morte soltanto il momento di consolidazione di un contratto già perfezionatosi nel contratto di assicurazione.
La tesi di Manenti è stata riscoperta dopo circa mezzo secolo dal tribunale di Catania circa l'emissione di un libretto di deposito nominativo a favore di un terzo con la riserva di prelevare le somme residue solo dopo la morte del depositante. La sentenza stabilisce l'obbligo per la banca di dare le somme al terzo e l'annotatore della sentenza ritiene che si tratti di contratto a favore di un terzo per perseguire una finalità tipica di atti mortis causa con conseguente nullità del deposito per difetto di forma ad substantiam.
Tale fattispecie era analoga a quella esaminata dalla Corte d'Appello di New York nel 1904 e passata alla storia con il nome di Totten trust dove era avvenuto ugualmente un deposito con trust a favore di un terzo, con la facoltà di revoca del beneficio.
Le due fattispecie sono configurabili come savings bank trust con i soggetti di settlor nel depositante, di trustee nella baca e di beneficiario nel terzo. Il costituente si riserva il potere di revoca mantenendo la disponibilità delle somme e compie dunque un atto inter vivos con cui dispone del proprio patrimonio post mortem. Si tratta di un contratto a favore di un terzo in cui la prestazione va compiuta alla morte dello stipulante(art.1412c.c.). Si tratta di un atto di liberalità a causa di morte in deroga al divieto di patti successori?
2.LA DISTINZIONE TRA ATTI MORTIS CAUSA E ATTI POST MORTEM. I REQUISITI DEI NEGOZI TRANSMORTE.
L'atto mortis causa è l'atto diretto a regolare i rapporti patrimoniali e non patrimoniali del soggetto per il tempo e in dipendenza della sua morte, senza che si produca alcun effetto prima di tale evento. Esso ha come contenuto tipico il regolamento di una situazione rilevante giuridicamente dopo la morte del suo autore.
Negli atti post mortem l'evento della morte rappresenta invece soltanto la condizione o il termine di efficacia dell'attribuzione che è attuale e non limitata al residuo dopo l'evento della morte.
Sulla base di tale distinzione si è stabilito che non costituiscono atti mortis causa ma atti inter vivos aventi a oggetto beni futuri i patti successori dispositivi e rinunciativi(vietati dall'art. 458). Si sono individuati una serie di atti di natura contrattuale con la funzione di alternativa convenzionale al testamento i quali permettono: il controllo della qualità del soggetto beneficiario e il mantenimento e la formazione educativa spirituale e professionale di determinate persone permettendo anche una diversificazione dei beni in vista del tipo di trasferimento più idoneo rispetto alla loro natura.
Tali soluzioni contrattuali alternative al testamento dirette a regolare situazioni patrimoniali post mortem sono dette successioni anomale tra cui la dottrina ha individuato alcune figure tipiche tutte caratterizzate dalla coesistenza di tre elementi: 1. cessazione dell'appartenenza del bene al disponente dal momento della stipula. 2. differimento dell'acquisto da parte del beneficiario al momento della morte del disponente 3. riserva a favore del disponente del potere di revoca.
Si distinguono ulteriormente figure indicate come negozi post mortem che presentano solo i primi due requisiti, non essendo revocabili e in cui l'immediata operatività dell'attribuzione impedisce che si possa parlare di atto mortis causa, estraneo dunque al divieto di patti successori.
3.IL MANDATO POST MORTEM E IL CONTRATTO A FAVORE DI TERZI CON EFFETTI POST MORTEM
In questi casi è maggiore la possibilità di una violazione dei patti successori. Il mandato post mortem conferito per contratto si afferma essere nullo ex art.458c.c. Ogni qual volta ne sia pattuita l'irrevocabilità mentre è ritenuto valido il mandato post mortem exsequendum per il quale il mandatario è tenuto a consegnare al terzo l'oggetto di un'attribuzione patrimoniale già attuata e perfezionata durante la vita del mandante.
Per quanto concerne il contratto a favore di terzo con effetti post mortem una parte della dottrina ravvisa uno strumento per la realizzazione di un'attribuzione mortis causa, elusiva del divieto di patti successori.
All'ipotesi di un Totten trust è negata validità da chi ravvisa in essa gli estremi di una disposizione testamentaria indiretta inammissibile nel nostro ordinamento in quanto prima della morte del depositante nessuna modifica era intervenuta nel suo patrimonio.
4.IL RICONOSCIMENTO DEGLI EFFETTI DEL TRUST NEL DIRITTO SUCCESSORIO ITALIANO
Attraverso la L.n. 364/1989 non si verifica l'entrata a pieno titolo del trust nel nostro ordinamento, essendosi verificato il riconoscimento da parte del nostro ordinamento degli effetti dei trusts costituiti nei paesi di common law. Risulta non infondata l'ipotesi che l'esclusione del trust domestico o interno comporti una disparità di trattamento rilevante a livello di Legittimità costituzionale. Cesare Grassetti si augurava che nella riforma del diritto privato si tenesse presente l'istituto del trust, ma il suo messaggio non fu recepito. Tuttora il messaggio è attuale in quanto nel nostro ordinamento vale un riconoscimento di diritto internazionale privato per gli effetti dei trusts costituiti nei paesi di common law in quanto sono fatti salvi i limiti della legge nazionale in materia di testamento e di devoluzione dei beni ereditari, con specifica attenzione per i diritti dei legittimari.
Non sono mancati timori di un'applicazione eccessivamente rigida di tali limiti, che potrebbe portare all'assimilazione di un trust inter vivos ad un atto di liberalità atipico di cui all'art.809 c.c. Con la conseguenza di un possibile ricorso all'art.555c.c per la parte eccedente la quota disponibile, senza escludere la possibile violazione ex art. 458c.c. E i limiti della sostituzione fedecommissaria sanciti dall'attuale art.692c.c.
5.L'UTILIZZO DEL TRUST IN FUNZIONE PARASUCCESSORIA E IL DIVIETO DEI PATTI SUCCESSORI
Si è affermata la superiorità del trust rispetto agli strumenti tradizionali del diritto successorio, in conseguenza dello schema estremamente lineare e semplice dell'istituto.
Nel trust il settlor dispone di uno o più beni di sua proprietà a favore del trustee il quale è tenuto all'amministrazione di questi beni che rimangono separati dal suo patrimonio personale ed è inoltre tenuto ad assicurare le aspettative del destinatario finale dell'attribuzione. L'unico proprietario è il trustee che è però obbligato all'esercizio del diritto di proprietà e al suo trasferimento finale al beneficiario in conformità alle direttive del settlor.
Tra le utilizzazioni possibili:
1.il settlor dà incarico al trustee di amministrare le azioni di una società che costituisce il patrimonio di famiglia attribuendo le rendite ai figli, cui verrà trasferita la titolarità quando saranno in grado.
2.il settlor costituisce una parte del suo patrimonio in trust irrevocabile a titolo gratuito stabilendo che il trust cessi alla sua morte e che i beni prima costituiti in trust siano attribuiti a soggetti determinati e non più codificabili.
3.Il settlor costituisce in trust alcuni suoi beni incaricando il trustee di destinare le rendite a soggetti diversi successivamente, a ognuno dopo la morte dell'altro, attribuendo la proprietà dei beni al più giovane dei figli dell'ultimo dei soggetti.
4.Il settlor trasferisce in trust ad una società straniera l'intero pacchetto azionario di altra società straniera della quale è unico azionista e che è proprietaria di tutti i suoi beni siti in Italia con il patto che alla sua morte il trustee il trustee provvederà alla gestione della società di cui precedentemente il settlor era l'unico azionista destinando per venti anni le rendite ad un soggetto e destinando poi il pacchetto azionario a un ulteriore soggetto.
L'ultima ipotesi non violerebbe alcuna legge italiana in quanto nessuno dei passaggi costituisce atto simulato. La giurisprudenza francese ha ritenuto valido tale tipo di trust per due ragioni:perché manca qualsiasi accordo con il beneficiario futuro; perché il trasferimento del diritto non coincide con la morte del settlor ma si realizza in via definitiva durante la vita di lui.
L'immediatezza dell'acquisto in capo al trustee e l'unilateralità dell'atto porta ad affermare che anche il living trust, dove il settlor si riserva la libertà di revocare il beneficiario finale dell'attribuzione, non contrasterebbe con il divieto di patti successori, non essendovi alcun accordo diretto con il beneficiario finale.
A tale conclusione giunge anche la dottrina italiana la quale esclude che la caratteristica strutturale del trust possa dare vita a un patto successorio istitutivo e che si possa parlare di atto mortis causa.
Per avere una nullità generalizzata del trust si dovrebbe provare la contrarietà dell'istituto rispetto ai principi della successione mortis causa. Ma le strutture sono diverse, nel trust manca l'accordo tra il de cuius e il soggetto destinatario dell'attribuzione, che è elemento fondante del patto successorio istitutivo. Altro elemento caratterizzante il patto istitutivo è che l'oggetto della disposizione faccia parte dell'asse ereditario mentre nel trust i beni sono usciti definitivamente dal patrimonio del de cuius. In terzo luogo, almeno nel living trust, non è ravvisabile alcuna limitazione alla libertà testamentaria.
Dunque un contrasto del trust con i principi del diritto successorio non è ravvisabile col divieto di patti successori ma nel fatto che mediante in trust si potrebbe delineare un assetto di interessi mortis causa al di fuori del testamento, unico atto riconosciuto dal nostro ordinamento. Tuttavia, al momento della morte, i beni non appartengono all'asse ereditario, in quanto la proprietà è stata già trasferita in via definitiva e per atto inter vivos al trustee. Per questo motivo non vi è interferenza nemmeno con il divieto di disporre mortis causa del proprio patrimonio con uno strumento diverso dal testamento posto dall'art.457c.c.
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I PRESUPPOSTI DELLA VOCAZIONE EREDITARIA. LA CAPACITA' DI SUCCEDERE
1.PREMESSE GENERALI. CAPACITA' DI SUCCEDERE E CAPACITA' GIURIDICA. LA PRESUNZIONE RELATIVA AL CONCEPIMENTO. CAPACITA' DI SUCCEDERE ED ESISTENZA DEL SUCCESSIBILE. LE INCAPACITA' RELATIVE DI SUCCEDERE
Nel codice civile del 1942 la disciplina della capacità di succedere, art.462, fa parte delle disposizioni generali sulle successioni. Si tratta infatti di regole comuni ad ogni tipo di successione.
Tale collocazione è innovativa rispetto al codice del 1865 che aveva posto tali norme tra le disposizioni sulle successioni legittime, portando così a una duplicazione di norme. Sono state inoltre accolte le disposizioni della dottrina, riservando un capo autonomo all'indegnità, separandola dall'incapacità di succedere.
Tuttavia anche l'attuale sistemazione della materia non è esente di critiche. La normativa non è stata in grado di risolvere il rapporto tra incapacità di succedere e indegnità. Inoltre ci si pone il problema dell'utilità dell'art.462 circa la capacità di succedere che sembrerebbe meramente ripetitivo dellart.1c.c. Salvo che per il 3' comma dell'art.462 che riconosce la capacità di succedere ai figli di una determinata persona vivente al tempo della morte del testatore quando ancora non concepiti. Inoltre il 2' comma dell'art.462c.c. Comporta una discrasia rispetto alla disposizione generale dell'art.232,1'comma in quanto stabilisce una presunzione semplice di concepimento e quindi rimane possibile provare che il concepimento sia avvenuto dopo la morte del de cuius cosicchè il concepito potrebbe essere escluso dalla successione pur mantenendo lo status di figlio legittimo. Alla dottrina non è sfuggito il problema e dunque la prova contraria risulta inammissibile qualora vi sia una controversia anche sulla legittimità. La prova contraria è ammissibile in caso di filiazione naturale o di successione tra fratelli o estranei.
La formulazione positiva del 1'comma dell'art.462 è invece utile ad evitare la sovrapposizione tra l'esistenza della persona e la capacità di succedere propriamente detta, al contrario del codice del 1865 dove l'incapacità di succedere era destinata a rimanere assorbita nell'inesistenza del soggetto. Inoltre la formulazione più chiara dell'art.462c.c. Consente di enucleare meglio la regola generale della capacità. Non sono di ostacolo le norme che limitano la capacità di ricevere per testamento del notaio, dei testimoni e dell'interprete(artt.596-598) per i quali vale un'incapacità di succedere relativa o un difetto di legittimazione e per i quali non c'è un'assoluta incapacità di succedere.
2.IL SISTEMA DELL'ART.462C.C. I FIGLI NON CONCEPITI DI UNA DETERMINATA PERSONA VIVENTE AL MOMENTO DELLA MORTE DEL TESTATORE. I CONCEPITI AL MOMENTO DELL'APERTURA DELLA SUCCESSIONE
Nessuna capacità successoria generale è attribuita ai non concepiti: la loro capacità è condizionata al concepimento da parte di soggetti in vita al momento della morte del de cuius. La rimozione della clausola “immediati” non significa un'equiparazione del termine figli alla categoria dei discendenti in linea retta. Problema maggiore è quali siano i soggetti che vanno ritenuti figli: sono da ritenersi tali i figli naturali riconosciuti o giudizialmente accertati, mentre è discussa la posizione dei figli adottivi per i quali non c'è concepimento ma per i quali sembra comunque preferibile soluzione positiva.
Per quanto riguarda i diritti successori del concepito l'art.1,2'comma farebbe ritenere che i diritti successori del concepito siano subordinati all'evento della nascita. Va ricordato che la loro capacità è comunque generale e non speciale, come per i non concepiti, in quanto sono potenziali destinatari anche della vocazione ereditaria legittima.
3.IPRESUPPOSTI DELLA CAPACITA' DI SUCCEDERE. L'ELIMINAZIONE Del REQUISITO DELLA VITALITA'. SITAZIONE DEL CHIAMATO DI CUI SIA INCERTA L'ESISTENZA
L'unica ipotesi di capacità incondizionata è quella di chi nasce prima dell'apertura della successione. Oltre alla nascita in sé per sé è necessario che il destinatario della vocazione sia nato vivo, non è invece più richiesto il carattere della vitalità, precedentemente posto dall'art.724,1'comma c.c.
In secondo luogo il chiamato deve essere ancora in vita al momento dell'apertura della successione per quanto non vi sia un'esplicazione di tale principio generale come avviene nell'art.725 del code civil.
È più controversa la posizione del chiamato di cui sia incerta l'esistenza al momento dell'apertura della successione, a prescindere da una dichiarazione formale di assenza o di morte presunta.
Uno dei presupposti della vocazione ereditaria è certamente quello della certezza dell'esistenza del chiamato al momento dell'apertura della successione per cui fino a quando non viene meno la situazione di incertezza la fattispecie si presenta incompleta e la designazione non è in grado di esplicare i suoi effetti tipici. La designazione non è tuttavia del tutto efficace, in quanto l'art.70,2'comma dispone una serie di cautele nel caso in cui il chiamato ritorni o ne sia provata la sua esistenza al momento dell'apertura della successione.
4.LA VOCAZIONE DEI NASCITURI CONCEPITI E NON CONCEPITI. IL SENSO DELL'IMMEDIATEZZA DELLA VOCAZIONE DEL CONCEPITO
Si pone un problema non lieve circa la capacità di succedere dei concepiti dal momento in cui l'art.462,1' comma non contiene alcun riferimento all'evento della nascita al contrario dell'art.1,2'comma. Da tale divergenza si arriva a parlare di capacità attuale di succedere del concepito, di delazione sospesa o di delazione condizionata.
Nel primo caso la retroattività dell'acquisto al momento dell'apertura della successione trova giustificazione nell'anticipazione della personalità sulla nascita, attribuendo al concepito una personalità limitata o strumentale. Al contrario, nel secondo caso, chi ricostruisce la vocazione del concepito subordinata all'evento della nascita sottolinea che la delazione sarebbe in uno stato di pendenza dal momento che la designazione è senza effetto se il concepito non viene ad esistenza.
Nel tentativo di mediare tra le due diverse concezioni si è suggerito di distinguere la vocazione ereditaria dalla delazione, per cui il concepito sarebbe idoneo alla vocazione ma mancherebbe la delazione in quanto manca una personalità finale e duratura.
La problematica si ripropone in termini analoghi per i non concepiti. Si controverte infatti circa una vocazione attuale e perfetta o di una vocazione sottoposta a condizione. Nell'ultima delle ipotesi si tratterebbe di una fattispecie a formazione progressiva che si perfeziona al momento della nascita, retroagendo al tempo dell'apertura della successione. Non manca chi ravvisa la doppia vocazione del non concepito e di colui che succederebbe al suo posto se poi non seguisse la nascita. Non manca ancora chi afferma che le situazioni del concepito e del non concepito non siano assimilabili perché la disciplina positiva sarebbe notevolmente diversa nelle due ipotesi, essendo per di più riservato ai non concepiti un comma a sé stante.
Rimane a questo punto il problema di chiedersi se l'art.320,1'e3'comma, che implicitamente consente ai genitori di accettare l'eredità in nome e per conto del nascituro, si riferisce ai concepiti e non concepiti. In definitiva bisogna chiedersi se alla diversità di disciplina corrisponda un'effettiva differenziazione delle rispettive vocazioni ereditarie. È opinione diffusa quella che nel caso del non concepito mancherebbe lo stesso destinatario della vocazione, per quanto lo stesso accadrebbe nel caso in cui il nascituro non venga ad esistenza. Nei confronti dei nascituri, concepiti o no, non è possibile parlare di vacanza della quota, che si avrà invece solo quando è certo che il non concepito non potrà più venire ad esistenza.
Non è ancora utile a differenziare le due ipotesi il fatto che in caso di concepiti i beni vengano amministrati dai genitori, mentre nel caso di non concepiti non è necessario che essi siano dati alla persona vivente che dovrebbe generarli. La rappresentanza del genitore è assicurata dalla legge anche a favore del non concepito(art.643,1'comma) e l'amministrazione dei beni deve comunque avvenire con l'osservanza delle norme sui curatori dell'eredità giacente in entrambi i casi. L'art.320,1'comma attribuisce inoltre ai genitori la rappresentanza e l'amministrazione dei beni dei figli nascituri, senza fare differenza tra concepiti e non.
La questione dell'attualità della vocazione del concepito perde gran parte della sua importanza pratica alla luce della retroattività dell'accettazione al tempo dell'apertura della successione(art.459).
In ogni caso l'accettazione in nome e per conto del concepito non comporta l'acquisto di diritti prima della nascita in nessun caso.
5.PROCREAZIONE ASSISTITA E CAPACITA' DI SUCCEDERE DEL NASCITURO. LA TUTELA DELL'EMBRIONE
Le pratiche di procreazione assistita mettono a dura prova la valenza delle teorie sulla capacità di succedere. In Francia, dove la legge esclude la capacità di succedere dei non concepiti, si sono create forti disparità quando è stato riconosciuto diritto di succedere al concepito con fecondazione in vitro prima della morte (e impianto successivo) mentre non è stato riconosciuto tale diritto al concepito attraverso inseminazione post mortem.
Il concepimento in vitro pone inoltre problemi nel caso in cui egli venga impiantato anche a distanza di anni, ponendo nel vuoto situazioni ormai consolidate. Per cui risulta necessario chiarire meglio se la capacità successoria si acquisti al momento della fecondazione dell'ovulo o del suo impianto; si è auspicata inoltre una modifica dell'art.725 code civil in modo da riconoscere anche al concepito per l'inseminazione omologa post mortem la capacità di succedere.
Situazione analoga si verifica nel diritto italiano, dove è richiesta l'esistenza di entrambi i genitori al momento dell'impianto dell'embrione dalla L.n.40/2004. La dottrina aveva già da tempo evidenziato l'assoluta inadeguatezza del diritto vigente di far fronte alle nuove problematiche emergenti dalla procreazione assistita. Il problema del riconoscimento dei diritti successori all'embrione sarebbe semplificato se si riuscisse a dimostrare che dopo la L.n.40/2004 nulla osta ad una assimilazione dell'embrione al nascituro concepito. Ma la situazione non è così semplice, come dimostrato dalla molteplicità di soluzioni prospettate prima della stessa legge 40. Necessità di un intervento legislativo per una regolamentazione armonica della materia, che elimini il disagio dell'interprete.
A livello successorio i problemi di tutela dell'embrione sono essenzialmente due: il primo problema riguarda l'inseminazione post mortem per quanto riguarda la successione paterna. Non è possibile infatti considerare tra i successibili chi sia stato concepito a seguito della morte del proprio genitore. Si è proposto dunque di scindere il profilo dell'attribuzione dello status di figlio legittimo dal profilo di riconoscimento dei diritti successori. Il secondo problema è quello dell'embrione crioconservato con impianto solo dopo l'apertura della successione, vietato dalla legge 40 ma scientificamente possibile. In Francia si riconosce la capacità successoria al nato vivo a seguito di impianto post mortem di embrione crioconservato. Il problema si sposta dunque sulla prova di essere stato concepito prima dell'apertura della successione nonostante che la nascita sia avvenuta oltre il limite dei trecento giorni. Per di più vi è una maggiore incertezza dovuta al fatto che la la nascita potrebbe avvenire anche a distanza di molto tempo dall'apertura della successione e vi è un'esigenza altrettanto evidente di tutela dei chiamati in subordine.
In Italia l'unica soluzione certamente rispettosa della legge 40 al momento è quella più drastica: l'interpretazione restrittiva dell'art.462c.c. In modo da considerare concepito il solo embrione già impiantato al momento dell'apertura della successione. L'unica soluzione alternativa potrebbe essere quella di considerare il nascituro da embrione crioconservato alla stregua di un erede istituito sotto condizione sospensiva ex art.641c.c.
6.LA CAPACITA' DI SUCCEDERE DELLE PERSONE GIURIDICHE. GLI ENTI NON PERSONIFICATI E L'ABROGAZIONE DELL'ART.600C.C.
L'art.462c.c. Non si occupa della capacità di succedere delle persone giuridiche, per quanto nessun dubbio esista nella nostra dottrina sulla capacità di succedere delle persone giuridiche anche prima dell'abrogazione degli artt.17 e 600c.c. Il primo dei quali richiedeva l'autorizzazione governativa per l'accettazione di eredità e per l'acquisto di legati mentre il secondo dichiarava inefficaci disposizioni a favore di un ente non riconosciuto se entro un anno dal giorno in cui il testamento era eseguibile non fosse stata fatta istanza per il riconoscimento.
Unico riferimento implicito rimane quello dell'art.473,1'comma che obbliga le persone giuridiche ad accettare con beneficio di inventario. Le persone giuridiche hanno capacità di succedere speciale, non potendo esse essere destinatarie della vocazione legale. Fa eccezione la successione dello stato ex art.586c.c.
La capacità di ricevere per testamento è indiscussa solo per le persone giuridiche esistenti come soggetti, per cui la persona giuridica è incapace di succedere quando sia dichiarata estinta ex art.27c.c. e messa in liquidazione dopo l'apertura della successione ma prima di avere accettato l'eredità o acquistato il legato. Prima dell'abrogazione dell'art.600c.c. Inoltre si riteneva che gli enti non personificati fossero incapaci di succedere anche se poi si precisava che tale incapacità poteva essere rimossa con istanza di riconoscimento e, in quanto la disposizione era inefficace, si parlava di sospensione della delazione o di vacanza dell'eredità o di istituzione sotto condizione assimilando la disposizione a favore dell'ente di fatto alle disposizioni a favore di un concepito. Tale ricostruzione antropomorfa è stata ritenuta in tempi recenti non particolarmente significativa.
Secondo una prima concezione si distingueva il trattamento dell'ente costituito ma non ancora esistente giuridicamente da quello dell'ente non costituito neanche in fatto. Secondo una concezione ancora più possibilista si muoveva chi attribuiva agli enti non personificati ma già esistenti in fatto un'autonoma individualità e soggettività giuridica, di grado non inferiore a quella delle persone giuridiche riconosciute. Secondo questa seconda ricostruzione il problema dell'efficacia delle disposizioni testamentarie a favore di enti non riconosciuti tornava ad essere risolto con lo strumento tradizionale della condizione legale. Tale dibattito, seppur ormai sopito, è stato uno dei più vivaci e appassionati nella dottrina civilistica italiana.
Anche dopo l'abrogazione dell'art.600 tuttavia vi sono delle limitazioni per quanto concerne gli enti non esistenti neanche in fatto. La capacità di succedere delle persone giuridiche non riconosciute deve fare i conti con l'esistenza almeno in fatto del soggetto destinatario, rimanendo dunque la vocazione soggetta alla condizione dell'esistenza.
Nel codice civile del 1942 la disciplina della capacità di succedere, art.462, fa parte delle disposizioni generali sulle successioni. Si tratta infatti di regole comuni ad ogni tipo di successione.
Tale collocazione è innovativa rispetto al codice del 1865 che aveva posto tali norme tra le disposizioni sulle successioni legittime, portando così a una duplicazione di norme. Sono state inoltre accolte le disposizioni della dottrina, riservando un capo autonomo all'indegnità, separandola dall'incapacità di succedere.
Tuttavia anche l'attuale sistemazione della materia non è esente di critiche. La normativa non è stata in grado di risolvere il rapporto tra incapacità di succedere e indegnità. Inoltre ci si pone il problema dell'utilità dell'art.462 circa la capacità di succedere che sembrerebbe meramente ripetitivo dellart.1c.c. Salvo che per il 3' comma dell'art.462 che riconosce la capacità di succedere ai figli di una determinata persona vivente al tempo della morte del testatore quando ancora non concepiti. Inoltre il 2' comma dell'art.462c.c. Comporta una discrasia rispetto alla disposizione generale dell'art.232,1'comma in quanto stabilisce una presunzione semplice di concepimento e quindi rimane possibile provare che il concepimento sia avvenuto dopo la morte del de cuius cosicchè il concepito potrebbe essere escluso dalla successione pur mantenendo lo status di figlio legittimo. Alla dottrina non è sfuggito il problema e dunque la prova contraria risulta inammissibile qualora vi sia una controversia anche sulla legittimità. La prova contraria è ammissibile in caso di filiazione naturale o di successione tra fratelli o estranei.
La formulazione positiva del 1'comma dell'art.462 è invece utile ad evitare la sovrapposizione tra l'esistenza della persona e la capacità di succedere propriamente detta, al contrario del codice del 1865 dove l'incapacità di succedere era destinata a rimanere assorbita nell'inesistenza del soggetto. Inoltre la formulazione più chiara dell'art.462c.c. Consente di enucleare meglio la regola generale della capacità. Non sono di ostacolo le norme che limitano la capacità di ricevere per testamento del notaio, dei testimoni e dell'interprete(artt.596-598) per i quali vale un'incapacità di succedere relativa o un difetto di legittimazione e per i quali non c'è un'assoluta incapacità di succedere.
2.IL SISTEMA DELL'ART.462C.C. I FIGLI NON CONCEPITI DI UNA DETERMINATA PERSONA VIVENTE AL MOMENTO DELLA MORTE DEL TESTATORE. I CONCEPITI AL MOMENTO DELL'APERTURA DELLA SUCCESSIONE
Nessuna capacità successoria generale è attribuita ai non concepiti: la loro capacità è condizionata al concepimento da parte di soggetti in vita al momento della morte del de cuius. La rimozione della clausola “immediati” non significa un'equiparazione del termine figli alla categoria dei discendenti in linea retta. Problema maggiore è quali siano i soggetti che vanno ritenuti figli: sono da ritenersi tali i figli naturali riconosciuti o giudizialmente accertati, mentre è discussa la posizione dei figli adottivi per i quali non c'è concepimento ma per i quali sembra comunque preferibile soluzione positiva.
Per quanto riguarda i diritti successori del concepito l'art.1,2'comma farebbe ritenere che i diritti successori del concepito siano subordinati all'evento della nascita. Va ricordato che la loro capacità è comunque generale e non speciale, come per i non concepiti, in quanto sono potenziali destinatari anche della vocazione ereditaria legittima.
3.IPRESUPPOSTI DELLA CAPACITA' DI SUCCEDERE. L'ELIMINAZIONE Del REQUISITO DELLA VITALITA'. SITAZIONE DEL CHIAMATO DI CUI SIA INCERTA L'ESISTENZA
L'unica ipotesi di capacità incondizionata è quella di chi nasce prima dell'apertura della successione. Oltre alla nascita in sé per sé è necessario che il destinatario della vocazione sia nato vivo, non è invece più richiesto il carattere della vitalità, precedentemente posto dall'art.724,1'comma c.c.
In secondo luogo il chiamato deve essere ancora in vita al momento dell'apertura della successione per quanto non vi sia un'esplicazione di tale principio generale come avviene nell'art.725 del code civil.
È più controversa la posizione del chiamato di cui sia incerta l'esistenza al momento dell'apertura della successione, a prescindere da una dichiarazione formale di assenza o di morte presunta.
Uno dei presupposti della vocazione ereditaria è certamente quello della certezza dell'esistenza del chiamato al momento dell'apertura della successione per cui fino a quando non viene meno la situazione di incertezza la fattispecie si presenta incompleta e la designazione non è in grado di esplicare i suoi effetti tipici. La designazione non è tuttavia del tutto efficace, in quanto l'art.70,2'comma dispone una serie di cautele nel caso in cui il chiamato ritorni o ne sia provata la sua esistenza al momento dell'apertura della successione.
4.LA VOCAZIONE DEI NASCITURI CONCEPITI E NON CONCEPITI. IL SENSO DELL'IMMEDIATEZZA DELLA VOCAZIONE DEL CONCEPITO
Si pone un problema non lieve circa la capacità di succedere dei concepiti dal momento in cui l'art.462,1' comma non contiene alcun riferimento all'evento della nascita al contrario dell'art.1,2'comma. Da tale divergenza si arriva a parlare di capacità attuale di succedere del concepito, di delazione sospesa o di delazione condizionata.
Nel primo caso la retroattività dell'acquisto al momento dell'apertura della successione trova giustificazione nell'anticipazione della personalità sulla nascita, attribuendo al concepito una personalità limitata o strumentale. Al contrario, nel secondo caso, chi ricostruisce la vocazione del concepito subordinata all'evento della nascita sottolinea che la delazione sarebbe in uno stato di pendenza dal momento che la designazione è senza effetto se il concepito non viene ad esistenza.
Nel tentativo di mediare tra le due diverse concezioni si è suggerito di distinguere la vocazione ereditaria dalla delazione, per cui il concepito sarebbe idoneo alla vocazione ma mancherebbe la delazione in quanto manca una personalità finale e duratura.
La problematica si ripropone in termini analoghi per i non concepiti. Si controverte infatti circa una vocazione attuale e perfetta o di una vocazione sottoposta a condizione. Nell'ultima delle ipotesi si tratterebbe di una fattispecie a formazione progressiva che si perfeziona al momento della nascita, retroagendo al tempo dell'apertura della successione. Non manca chi ravvisa la doppia vocazione del non concepito e di colui che succederebbe al suo posto se poi non seguisse la nascita. Non manca ancora chi afferma che le situazioni del concepito e del non concepito non siano assimilabili perché la disciplina positiva sarebbe notevolmente diversa nelle due ipotesi, essendo per di più riservato ai non concepiti un comma a sé stante.
Rimane a questo punto il problema di chiedersi se l'art.320,1'e3'comma, che implicitamente consente ai genitori di accettare l'eredità in nome e per conto del nascituro, si riferisce ai concepiti e non concepiti. In definitiva bisogna chiedersi se alla diversità di disciplina corrisponda un'effettiva differenziazione delle rispettive vocazioni ereditarie. È opinione diffusa quella che nel caso del non concepito mancherebbe lo stesso destinatario della vocazione, per quanto lo stesso accadrebbe nel caso in cui il nascituro non venga ad esistenza. Nei confronti dei nascituri, concepiti o no, non è possibile parlare di vacanza della quota, che si avrà invece solo quando è certo che il non concepito non potrà più venire ad esistenza.
Non è ancora utile a differenziare le due ipotesi il fatto che in caso di concepiti i beni vengano amministrati dai genitori, mentre nel caso di non concepiti non è necessario che essi siano dati alla persona vivente che dovrebbe generarli. La rappresentanza del genitore è assicurata dalla legge anche a favore del non concepito(art.643,1'comma) e l'amministrazione dei beni deve comunque avvenire con l'osservanza delle norme sui curatori dell'eredità giacente in entrambi i casi. L'art.320,1'comma attribuisce inoltre ai genitori la rappresentanza e l'amministrazione dei beni dei figli nascituri, senza fare differenza tra concepiti e non.
La questione dell'attualità della vocazione del concepito perde gran parte della sua importanza pratica alla luce della retroattività dell'accettazione al tempo dell'apertura della successione(art.459).
In ogni caso l'accettazione in nome e per conto del concepito non comporta l'acquisto di diritti prima della nascita in nessun caso.
5.PROCREAZIONE ASSISTITA E CAPACITA' DI SUCCEDERE DEL NASCITURO. LA TUTELA DELL'EMBRIONE
Le pratiche di procreazione assistita mettono a dura prova la valenza delle teorie sulla capacità di succedere. In Francia, dove la legge esclude la capacità di succedere dei non concepiti, si sono create forti disparità quando è stato riconosciuto diritto di succedere al concepito con fecondazione in vitro prima della morte (e impianto successivo) mentre non è stato riconosciuto tale diritto al concepito attraverso inseminazione post mortem.
Il concepimento in vitro pone inoltre problemi nel caso in cui egli venga impiantato anche a distanza di anni, ponendo nel vuoto situazioni ormai consolidate. Per cui risulta necessario chiarire meglio se la capacità successoria si acquisti al momento della fecondazione dell'ovulo o del suo impianto; si è auspicata inoltre una modifica dell'art.725 code civil in modo da riconoscere anche al concepito per l'inseminazione omologa post mortem la capacità di succedere.
Situazione analoga si verifica nel diritto italiano, dove è richiesta l'esistenza di entrambi i genitori al momento dell'impianto dell'embrione dalla L.n.40/2004. La dottrina aveva già da tempo evidenziato l'assoluta inadeguatezza del diritto vigente di far fronte alle nuove problematiche emergenti dalla procreazione assistita. Il problema del riconoscimento dei diritti successori all'embrione sarebbe semplificato se si riuscisse a dimostrare che dopo la L.n.40/2004 nulla osta ad una assimilazione dell'embrione al nascituro concepito. Ma la situazione non è così semplice, come dimostrato dalla molteplicità di soluzioni prospettate prima della stessa legge 40. Necessità di un intervento legislativo per una regolamentazione armonica della materia, che elimini il disagio dell'interprete.
A livello successorio i problemi di tutela dell'embrione sono essenzialmente due: il primo problema riguarda l'inseminazione post mortem per quanto riguarda la successione paterna. Non è possibile infatti considerare tra i successibili chi sia stato concepito a seguito della morte del proprio genitore. Si è proposto dunque di scindere il profilo dell'attribuzione dello status di figlio legittimo dal profilo di riconoscimento dei diritti successori. Il secondo problema è quello dell'embrione crioconservato con impianto solo dopo l'apertura della successione, vietato dalla legge 40 ma scientificamente possibile. In Francia si riconosce la capacità successoria al nato vivo a seguito di impianto post mortem di embrione crioconservato. Il problema si sposta dunque sulla prova di essere stato concepito prima dell'apertura della successione nonostante che la nascita sia avvenuta oltre il limite dei trecento giorni. Per di più vi è una maggiore incertezza dovuta al fatto che la la nascita potrebbe avvenire anche a distanza di molto tempo dall'apertura della successione e vi è un'esigenza altrettanto evidente di tutela dei chiamati in subordine.
In Italia l'unica soluzione certamente rispettosa della legge 40 al momento è quella più drastica: l'interpretazione restrittiva dell'art.462c.c. In modo da considerare concepito il solo embrione già impiantato al momento dell'apertura della successione. L'unica soluzione alternativa potrebbe essere quella di considerare il nascituro da embrione crioconservato alla stregua di un erede istituito sotto condizione sospensiva ex art.641c.c.
6.LA CAPACITA' DI SUCCEDERE DELLE PERSONE GIURIDICHE. GLI ENTI NON PERSONIFICATI E L'ABROGAZIONE DELL'ART.600C.C.
L'art.462c.c. Non si occupa della capacità di succedere delle persone giuridiche, per quanto nessun dubbio esista nella nostra dottrina sulla capacità di succedere delle persone giuridiche anche prima dell'abrogazione degli artt.17 e 600c.c. Il primo dei quali richiedeva l'autorizzazione governativa per l'accettazione di eredità e per l'acquisto di legati mentre il secondo dichiarava inefficaci disposizioni a favore di un ente non riconosciuto se entro un anno dal giorno in cui il testamento era eseguibile non fosse stata fatta istanza per il riconoscimento.
Unico riferimento implicito rimane quello dell'art.473,1'comma che obbliga le persone giuridiche ad accettare con beneficio di inventario. Le persone giuridiche hanno capacità di succedere speciale, non potendo esse essere destinatarie della vocazione legale. Fa eccezione la successione dello stato ex art.586c.c.
La capacità di ricevere per testamento è indiscussa solo per le persone giuridiche esistenti come soggetti, per cui la persona giuridica è incapace di succedere quando sia dichiarata estinta ex art.27c.c. e messa in liquidazione dopo l'apertura della successione ma prima di avere accettato l'eredità o acquistato il legato. Prima dell'abrogazione dell'art.600c.c. Inoltre si riteneva che gli enti non personificati fossero incapaci di succedere anche se poi si precisava che tale incapacità poteva essere rimossa con istanza di riconoscimento e, in quanto la disposizione era inefficace, si parlava di sospensione della delazione o di vacanza dell'eredità o di istituzione sotto condizione assimilando la disposizione a favore dell'ente di fatto alle disposizioni a favore di un concepito. Tale ricostruzione antropomorfa è stata ritenuta in tempi recenti non particolarmente significativa.
Secondo una prima concezione si distingueva il trattamento dell'ente costituito ma non ancora esistente giuridicamente da quello dell'ente non costituito neanche in fatto. Secondo una concezione ancora più possibilista si muoveva chi attribuiva agli enti non personificati ma già esistenti in fatto un'autonoma individualità e soggettività giuridica, di grado non inferiore a quella delle persone giuridiche riconosciute. Secondo questa seconda ricostruzione il problema dell'efficacia delle disposizioni testamentarie a favore di enti non riconosciuti tornava ad essere risolto con lo strumento tradizionale della condizione legale. Tale dibattito, seppur ormai sopito, è stato uno dei più vivaci e appassionati nella dottrina civilistica italiana.
Anche dopo l'abrogazione dell'art.600 tuttavia vi sono delle limitazioni per quanto concerne gli enti non esistenti neanche in fatto. La capacità di succedere delle persone giuridiche non riconosciute deve fare i conti con l'esistenza almeno in fatto del soggetto destinatario, rimanendo dunque la vocazione soggetta alla condizione dell'esistenza.
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ecclesiastico IX
Martin Lutero forma la prima eresia che produce una storia, una cultura e delle chiese.
Rappresenta egli il primo eretico importante a non andare a rogo. Egli ottiene una dimensione politica e sociale partendo dalla religione. Era un monaco agostiniano che viveva in germania del nord, visse un'intensa vita religiosa ed era fortemente osservante. Aveva una concezione cupa di dio, influenzato dall'ambiente circostante era assillato dalla salvezza postmortem.
Lutero era tormentato dalla questione della salvezza e riteneva che l'uomo non risaliva per le opere compiute ma per la sua fede in dio. La chiesa romana chiedeva un cammino di perfezione, secondo lutero invece il sacrificio di chi si ritirava in convento e il celibato erano inutili in quanto solo dio decideva la salvezza.
Cambia la concezione di dio e della chiesa. Lutero abolisce i monasteri e la vita religiosa. Abolisce l'accumulazione proprietaria e il celibato. Viene meno il concetto di sacerdote dedito alla sola comunità. In tanti aderiscono alla riforma e il papa viene visto come usurpatore di poteri che non gli spettano. Lutero traduce la bibbia e impone la lettura ai fedeli che possono trarne un'interpretazione libera. Sono aboliti la maggior parte dei sacramenti, mantenendo solo il battesimo e l'eucarestia. Vengono eliminate tutte le figure non citate dalle sacre scritture quali i santi, scompare il culto della madonna, scompare l'arte sacra e si condanna la raffigurazione.
Cambia la concezione di dio, si torna ad una concezione precristiana, vicina al paganesimo nordico. La figura di gesu cristo viene assorbita dal padre, vi è una minore mediazione tra dio e l'uomo a causa della predeterminazione.
Il principio della libera interpretazione delle scritture porta alla deflagrazione delle chiese: si formano centinaia di chiesei n continua mutazione. Nascono subito battisti e anabattisti, gli anglican e i quaqqueri. Calvino forma una delle chiese più intransigenti e bigotte, con forte rigore morale e controllo della persona molto forte.
Lutero fa scaturire un pluralismo, che egli non voleva. Gli anabattisti predicavano la radicalità della giustizia sociale e la separazione tra stato e cheisa facendo nascere le rivolte dei contadini.
Gli anabattisti alimentano l'antisocialità e danno vita a una comunità che porta all'unità dei beni e delle donne.
Lutero ottiene in pochi mesi un grande successo, in quanto in germania continuava a sentirsi l'origine precristiana, essendo essi convertiti da non piu di 500 anni. Non avviene il conflitto con lo stato, in quanto per la volontà dello stesso Lutero i beni passano allo stato. Ogni chiesa si lega al potere politico territoriale e la chiesa protestante perde cosi il carattere universale del cattolicesimo.
Rappresenta egli il primo eretico importante a non andare a rogo. Egli ottiene una dimensione politica e sociale partendo dalla religione. Era un monaco agostiniano che viveva in germania del nord, visse un'intensa vita religiosa ed era fortemente osservante. Aveva una concezione cupa di dio, influenzato dall'ambiente circostante era assillato dalla salvezza postmortem.
Lutero era tormentato dalla questione della salvezza e riteneva che l'uomo non risaliva per le opere compiute ma per la sua fede in dio. La chiesa romana chiedeva un cammino di perfezione, secondo lutero invece il sacrificio di chi si ritirava in convento e il celibato erano inutili in quanto solo dio decideva la salvezza.
Cambia la concezione di dio e della chiesa. Lutero abolisce i monasteri e la vita religiosa. Abolisce l'accumulazione proprietaria e il celibato. Viene meno il concetto di sacerdote dedito alla sola comunità. In tanti aderiscono alla riforma e il papa viene visto come usurpatore di poteri che non gli spettano. Lutero traduce la bibbia e impone la lettura ai fedeli che possono trarne un'interpretazione libera. Sono aboliti la maggior parte dei sacramenti, mantenendo solo il battesimo e l'eucarestia. Vengono eliminate tutte le figure non citate dalle sacre scritture quali i santi, scompare il culto della madonna, scompare l'arte sacra e si condanna la raffigurazione.
Cambia la concezione di dio, si torna ad una concezione precristiana, vicina al paganesimo nordico. La figura di gesu cristo viene assorbita dal padre, vi è una minore mediazione tra dio e l'uomo a causa della predeterminazione.
Il principio della libera interpretazione delle scritture porta alla deflagrazione delle chiese: si formano centinaia di chiesei n continua mutazione. Nascono subito battisti e anabattisti, gli anglican e i quaqqueri. Calvino forma una delle chiese più intransigenti e bigotte, con forte rigore morale e controllo della persona molto forte.
Lutero fa scaturire un pluralismo, che egli non voleva. Gli anabattisti predicavano la radicalità della giustizia sociale e la separazione tra stato e cheisa facendo nascere le rivolte dei contadini.
Gli anabattisti alimentano l'antisocialità e danno vita a una comunità che porta all'unità dei beni e delle donne.
Lutero ottiene in pochi mesi un grande successo, in quanto in germania continuava a sentirsi l'origine precristiana, essendo essi convertiti da non piu di 500 anni. Non avviene il conflitto con lo stato, in quanto per la volontà dello stesso Lutero i beni passano allo stato. Ogni chiesa si lega al potere politico territoriale e la chiesa protestante perde cosi il carattere universale del cattolicesimo.
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ecclesiastico VIII
Nel 1309 papa Clemente V si stabilisce ad avignone. La francia acquisisce l'egemonia anche sulla chiessa e il papato perde l'autorevolezza essendo influenzato dall'ambiente circostante.
La maggioranza dei cardinali erano francesci, quindi vi è la subalternità dei papi ai re di francia
Filippo il bello aveva chisto l'abolizione dell'ordine dei templari che erano stati il primo ordine militare religioso, problema della guerra era stato risolto da bernardo di chiaravalle secondo cui uccidere un musulmano nno era un omicidio ma un malicidio, dunque legittimo.
I templari grazie alla loro organizzazione ferrea dal punto di vista militare e finanziario riesce a diventare protagonista dello scenario politico. Diventano presto ricchissimi grazie alle donazioni, in quanto perseguivano il sogno della liberazione della terra santa. Si arricchiscono con i bottini di guerra e stabiliscono delle particolari regole economiche, impossibilitando i membri a rilevare ingenti somme di denaro dal patrimonio. Essendo inoltre esentati dalla giurisdizione episcopale, on erano giudicati che dal papa.
Filippo il bello fa arrestare tutti i dirigenti dei templari in una notte accusandoli di eresia e riti blasfemi, per i riti particolari che effettivamente essi avevano assunto, in particolare la presunta credenza per bafonet, derivante da maometto. Furono accusati di intelligenza con il nemico, di aver agito solo nel loro interesse. Dopo pochi giorni, grazie alla tortura, confessarono tutto.
Il processo è lungo, poi il papa si convince della loro colpevolezza e li mette a rogo, abolendo anche il loro ordine canonico. Filippo il bello incamera tutti i beni in francia, anche in Inghilterra accade lo stesso, mentre nella penisola iberica sono assolti e partecipano alle corciate sotto altro nome.
In cambio di ciò la chiesa non chiude mai il processo a Bonifacio VIII ed esclude gli effetti dell'unam sanctam per la francia. Certifica così la subalternità del papa nei confronti di un potere politico nazionale
Nel 1388 si deve eleggere l'imperatore, attraverso la dieta di francoforte. L'elezione è riservata ai principi tedeschi e non è necessaria l'approvazione pontificia. Il papa già depotenziato perde credibilità e col papato avignonese finisce la teocrazia in ogni sua forma.
Nel 1377 il papa torna a roma, con i cardinali epr lo piu francesi si era persa l'universalità e si erano formate delle fazioni interne. Dopo la morte del papa il conclave elegge un papa, ma viene dichiarata invalida l'elezione in quanto avvenuta sotto l'influenza del popolo. Si forma dunqeu un primo antipapa eletto dagli stessi cardinali. I cardinali delle opposte fazioni dunque si riuniscono a pisa e nel 1409 eleggono un nuovo papa, senza che però gli altri due si siano dimessi.
Si forma una frattura interna, una rottura giuridica. Si sviluppa un movimento conciliarista con base teologica. Il consiglio ecumenico dev'essere universale in quanto rappresenta gl i apostoli e sarebbe superiore al papa, avendo il potere di condannarlo per eresia.Viene organizzato il concilio di costanza con l'accordo di tutte le nazioni e l'accordo di tutti gli stati tra il 1414 e il 1417.
Haec sanctum sinodus prevede che il concilio riceve il proprio potere da cristo direttamente, ognuno è tenuto ad obbedirvi e il papa è parte del concilio, non è ad esso superiore.. Il concilio dev'essere celebrato ogni 5 anni, poi ogni 7 e a regime ogni 10 nei luoghi definiti dal pontefice o dal concilio.. Se vi sono 2 papi il concilio si riunisce entro un anno dall'inizio dello scisma.
Il papa ne uscirebbe subordinato al concilio, il papa diventa un amministratore, per quanto la chiesa non sia fondata su principi democratici.
Nel 1440 dopo costanza si riunisce il concilio di basilea che tratta il papa come un subalterno. Viene eletto un papa che è principe, Amedeo VIII che viene poi deposto. Il conciliarismo avrebbe portato all'assemblearismo e al separazionismo.
Agli inizi del '500 scoppia la riforma luterana o protestante che si contrappone alla chiesa romana formando una struttura propria. Dal protestantesimo però nascono continue nuove chiese e si crea un cristianesimo un cui un unico dio è diverso per ognuno.
La maggioranza dei cardinali erano francesci, quindi vi è la subalternità dei papi ai re di francia
Filippo il bello aveva chisto l'abolizione dell'ordine dei templari che erano stati il primo ordine militare religioso, problema della guerra era stato risolto da bernardo di chiaravalle secondo cui uccidere un musulmano nno era un omicidio ma un malicidio, dunque legittimo.
I templari grazie alla loro organizzazione ferrea dal punto di vista militare e finanziario riesce a diventare protagonista dello scenario politico. Diventano presto ricchissimi grazie alle donazioni, in quanto perseguivano il sogno della liberazione della terra santa. Si arricchiscono con i bottini di guerra e stabiliscono delle particolari regole economiche, impossibilitando i membri a rilevare ingenti somme di denaro dal patrimonio. Essendo inoltre esentati dalla giurisdizione episcopale, on erano giudicati che dal papa.
Filippo il bello fa arrestare tutti i dirigenti dei templari in una notte accusandoli di eresia e riti blasfemi, per i riti particolari che effettivamente essi avevano assunto, in particolare la presunta credenza per bafonet, derivante da maometto. Furono accusati di intelligenza con il nemico, di aver agito solo nel loro interesse. Dopo pochi giorni, grazie alla tortura, confessarono tutto.
Il processo è lungo, poi il papa si convince della loro colpevolezza e li mette a rogo, abolendo anche il loro ordine canonico. Filippo il bello incamera tutti i beni in francia, anche in Inghilterra accade lo stesso, mentre nella penisola iberica sono assolti e partecipano alle corciate sotto altro nome.
In cambio di ciò la chiesa non chiude mai il processo a Bonifacio VIII ed esclude gli effetti dell'unam sanctam per la francia. Certifica così la subalternità del papa nei confronti di un potere politico nazionale
Nel 1388 si deve eleggere l'imperatore, attraverso la dieta di francoforte. L'elezione è riservata ai principi tedeschi e non è necessaria l'approvazione pontificia. Il papa già depotenziato perde credibilità e col papato avignonese finisce la teocrazia in ogni sua forma.
Nel 1377 il papa torna a roma, con i cardinali epr lo piu francesi si era persa l'universalità e si erano formate delle fazioni interne. Dopo la morte del papa il conclave elegge un papa, ma viene dichiarata invalida l'elezione in quanto avvenuta sotto l'influenza del popolo. Si forma dunqeu un primo antipapa eletto dagli stessi cardinali. I cardinali delle opposte fazioni dunque si riuniscono a pisa e nel 1409 eleggono un nuovo papa, senza che però gli altri due si siano dimessi.
Si forma una frattura interna, una rottura giuridica. Si sviluppa un movimento conciliarista con base teologica. Il consiglio ecumenico dev'essere universale in quanto rappresenta gl i apostoli e sarebbe superiore al papa, avendo il potere di condannarlo per eresia.Viene organizzato il concilio di costanza con l'accordo di tutte le nazioni e l'accordo di tutti gli stati tra il 1414 e il 1417.
Haec sanctum sinodus prevede che il concilio riceve il proprio potere da cristo direttamente, ognuno è tenuto ad obbedirvi e il papa è parte del concilio, non è ad esso superiore.. Il concilio dev'essere celebrato ogni 5 anni, poi ogni 7 e a regime ogni 10 nei luoghi definiti dal pontefice o dal concilio.. Se vi sono 2 papi il concilio si riunisce entro un anno dall'inizio dello scisma.
Il papa ne uscirebbe subordinato al concilio, il papa diventa un amministratore, per quanto la chiesa non sia fondata su principi democratici.
Nel 1440 dopo costanza si riunisce il concilio di basilea che tratta il papa come un subalterno. Viene eletto un papa che è principe, Amedeo VIII che viene poi deposto. Il conciliarismo avrebbe portato all'assemblearismo e al separazionismo.
Agli inizi del '500 scoppia la riforma luterana o protestante che si contrappone alla chiesa romana formando una struttura propria. Dal protestantesimo però nascono continue nuove chiese e si crea un cristianesimo un cui un unico dio è diverso per ognuno.
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ecclesiastico V
Confessionismo societario. Nella res publica c'è una rete di rapporti dove l'etica cristiana ha valenza diretta o indiretta. Le visite pastorali consistevano in interventi periodici dei vescovi abbati nelle diverse località che intervenivano circa la catechesi e l'informativa sulla vita morale del luogo.
Rappresenta una forma di controllo sociale con cui si cerca di affinare i costumi dei fedeli e del clero che ha una valenza indiretta attraverso gli strumenti della censura e della scomunica ceh comportava l'estraniazione dalla ocmunita e la perdita dei diritti del civis fidelis.
Lo scomunicato vitandum est, va tenuto lontano dagli altri e porta alla morte civile.
Nasce la società europea, nascono gli scritti sui costumi morali, si affinano i costumi, la chiesa aumenta la ricchezza diventando quasi uno stato nello stato.
Nasce la regola dell'accumulazione dei beni immobiliari acquisiti, senza lo possibilità di venderli.
Obbligo per chi ha reddito di pagare una decima alle parrocchie in cambio dei servizi offerti.
La chiesa assume cupidigia e si creano decime monasterali e papali per le piu disparate evenienze.
Tali comportamenti formano le basi della sofferenza della comunità.
Nascono le chiese costruite con l'istituto del patronato, che permette di costruire grandi strutture finanziate dal patrono. Il patrono assume diritti e facoltà minori rispetto alla proprietà che rimane all'ente ecclesiastico.
Al vescovo è data potestà di arbitrato per questioni con un soggetto cattolico, è data rilevanza esclusiva al tribunale ecclesiastico circa determinate materie.
In caso di controversia tra ecclesiastici si ricorre al vescovo o ,col suo assenso, a un arbitr oscelto in comune.
Nasce la giurisdizione domestica che esclude quella civile.
Aumentano a dismisura le materie e i soggetti sottoposti alla giurisdizione ecclesiastica creando un forte disagio per i laici. La chiesa diventa sempre piu uno stato nello stato.
Rappresenta una forma di controllo sociale con cui si cerca di affinare i costumi dei fedeli e del clero che ha una valenza indiretta attraverso gli strumenti della censura e della scomunica ceh comportava l'estraniazione dalla ocmunita e la perdita dei diritti del civis fidelis.
Lo scomunicato vitandum est, va tenuto lontano dagli altri e porta alla morte civile.
Nasce la società europea, nascono gli scritti sui costumi morali, si affinano i costumi, la chiesa aumenta la ricchezza diventando quasi uno stato nello stato.
Nasce la regola dell'accumulazione dei beni immobiliari acquisiti, senza lo possibilità di venderli.
Obbligo per chi ha reddito di pagare una decima alle parrocchie in cambio dei servizi offerti.
La chiesa assume cupidigia e si creano decime monasterali e papali per le piu disparate evenienze.
Tali comportamenti formano le basi della sofferenza della comunità.
Nascono le chiese costruite con l'istituto del patronato, che permette di costruire grandi strutture finanziate dal patrono. Il patrono assume diritti e facoltà minori rispetto alla proprietà che rimane all'ente ecclesiastico.
Al vescovo è data potestà di arbitrato per questioni con un soggetto cattolico, è data rilevanza esclusiva al tribunale ecclesiastico circa determinate materie.
In caso di controversia tra ecclesiastici si ricorre al vescovo o ,col suo assenso, a un arbitr oscelto in comune.
Nasce la giurisdizione domestica che esclude quella civile.
Aumentano a dismisura le materie e i soggetti sottoposti alla giurisdizione ecclesiastica creando un forte disagio per i laici. La chiesa diventa sempre piu uno stato nello stato.
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ecclesiastico VI
La res publica gentium cristianarum nasce dalla riforma gregoriana, nasce l'inquisizione, ce sarà propria di tutto il cristianesimo protestante e cattolico.
Fu utilizzata anche dalla giurisdizione civile ma è la chiesa ad avere la maggior responsabilità in quanto impersonava e professava valori del vangelo.
La condanna degli eretici fu introdotta da teodosio, i processi e le condanne erano compito dei vescovi in quanto capi delle diocesi che conoscevano la realtà locale e gli eretici personalmente.
La condanna interveniva quando l'eresia era socialmente pericolosa, con l'inquisizione il fenomeno diventa piu individiuale.
Le eresie che trovavano maggior successo erano quelle pauperistiche, quelle che negavano il celibato dei preti o si opponevano alla scarsa moralità del clero.
Nasce l'eresia di pietro valdo, che darà vita ai valdesi, unica chiesa italiana protestante, anticipando di tre secoli la riforma di martin lutero..
L'eresia rappresenta un problema di disobbedienza civile.
L'eresia dei catari o degli albigesi trova origine nel manicheismo, secondo essa gli uomini sono incapaci di seguire i beni tranne i perfetti che avevano il comando su tutti. Ideologia fortemente pessimista con scarso attaccamento al cristianesimo.
Gli albigesi furono sterminati quando divennero uno stato nello stato.
Ci si preoccupò di affidare la lotta all'eresia non solo ai vescovi. L'inquisizione nasce come un tribunale speciale itinerante formato da legati papali che si dedicavano ad esso a tempo pieno.
Questi andavano a cercare il reato secondo un principio inquisitorio, non intervenivano solo dove vi fosse notizia di reato. Essi si stabilivano in un posto e agivano attraverso l'editto di fede o di grazia.
Attraverso l'editto di fede si dichiarava l'eresia rispetto a una verità di fede.
Attraverso l'editto di grazia si denunciavano gli eretici all'autorità.
Nasce il principio della denuncia anonima, l'eretico veniva arrestato e poteva confessarsi o pentirsi ottenendo una penitenza lieve senza che fosse possibile un contraddittorio con l'accusa.
Era un processo a porte chiuse senza estranei in cu isi faceva uso della tortura che portava tutti a confessare anche se i reati non erano commessi.
Le condanne variavano, fino alla pena di morte, ma queste erano messe in pratica non dalla chiesa, bensì dal braccio secolare. Come pene accessorie erano previsti il sequestro dei beni dell'accusato con la distribuzione agli accusatori. I figli dell'eretico condannato non potevano essere preti.
In spagna fu messa in pratica da torque mada un'inquisizione aprticolare in quanto arriva secoli dopo rispoetto a quella normale. Nel '400 quando fu completata la riconquista a scapito dei mori rimasero delle sacche di musulmani e ebrei che furono costretti ad espatriare o a convertirsi, veramente o fittiziamente. Nei fatti intere comunità di musulmani e ebrei continuarono a esercitare la propria religione e vennero soprannominati moriscos o marrani.
L'inquisizione colpiva gli eretici, e quindi cadevano sotto il suo giudizio quanti si erano convertiti al cristianesimo, facendo una pulizia etnico confessionale. La spagna diventa così compattamente cattolica.
Qualunque organizzazione militare a favore della fede era detta crociata, dalle lotte contro glie ebrei a quelle dei cavalieri teutonici contro il paganesimo.
570-632 vive Maometto, in pochi anno vengono conquistati grandi territori.
Gli arabi ottengono subito da maometto un inquadramento militare. Conquistata la penisola arabica dal medio oriente arrivano all'africa mediterranea, mentre non si sapeva che stava espandendosi una nuova religone monoteista.
In quei territori l'occupazione islamica era vista come una liberazione dal potere opprimente di costantinopoli. Ne nasce l'idea della razza islamica che si contrappone rispetto al paganesimo e obbliga a lla conversione o alla messa a morte. Per i cristiani e gli ebrei, in quanto seguaci del libro, era riconosciuta qualche validità. Erano essi infatti tollerati ma subordinati ai musulmani, la loro condizione era detta Dimmitudine. I dimmi dovevano pagare una tassa personale detta testatico. Ma erano soggetti alla loro legge, non alla sharia. Cominciano le conversioni per non pagare il testatico.
Ogni volta che sorgevano dei problemi i cristiani ed ebrei erano additati a colpevoli, quindi la tolleranza maggiore sta nella dimmitudine che però nei fatti poneva la condizione degli ebrei non diversa da quella occidentale.
L'islamismo introduce poi il principio che toglie la libertà religiosa, i musulmani non possono convertirsi altrimenti sono messi a morte.
Fu utilizzata anche dalla giurisdizione civile ma è la chiesa ad avere la maggior responsabilità in quanto impersonava e professava valori del vangelo.
La condanna degli eretici fu introdotta da teodosio, i processi e le condanne erano compito dei vescovi in quanto capi delle diocesi che conoscevano la realtà locale e gli eretici personalmente.
La condanna interveniva quando l'eresia era socialmente pericolosa, con l'inquisizione il fenomeno diventa piu individiuale.
Le eresie che trovavano maggior successo erano quelle pauperistiche, quelle che negavano il celibato dei preti o si opponevano alla scarsa moralità del clero.
Nasce l'eresia di pietro valdo, che darà vita ai valdesi, unica chiesa italiana protestante, anticipando di tre secoli la riforma di martin lutero..
L'eresia rappresenta un problema di disobbedienza civile.
L'eresia dei catari o degli albigesi trova origine nel manicheismo, secondo essa gli uomini sono incapaci di seguire i beni tranne i perfetti che avevano il comando su tutti. Ideologia fortemente pessimista con scarso attaccamento al cristianesimo.
Gli albigesi furono sterminati quando divennero uno stato nello stato.
Ci si preoccupò di affidare la lotta all'eresia non solo ai vescovi. L'inquisizione nasce come un tribunale speciale itinerante formato da legati papali che si dedicavano ad esso a tempo pieno.
Questi andavano a cercare il reato secondo un principio inquisitorio, non intervenivano solo dove vi fosse notizia di reato. Essi si stabilivano in un posto e agivano attraverso l'editto di fede o di grazia.
Attraverso l'editto di fede si dichiarava l'eresia rispetto a una verità di fede.
Attraverso l'editto di grazia si denunciavano gli eretici all'autorità.
Nasce il principio della denuncia anonima, l'eretico veniva arrestato e poteva confessarsi o pentirsi ottenendo una penitenza lieve senza che fosse possibile un contraddittorio con l'accusa.
Era un processo a porte chiuse senza estranei in cu isi faceva uso della tortura che portava tutti a confessare anche se i reati non erano commessi.
Le condanne variavano, fino alla pena di morte, ma queste erano messe in pratica non dalla chiesa, bensì dal braccio secolare. Come pene accessorie erano previsti il sequestro dei beni dell'accusato con la distribuzione agli accusatori. I figli dell'eretico condannato non potevano essere preti.
In spagna fu messa in pratica da torque mada un'inquisizione aprticolare in quanto arriva secoli dopo rispoetto a quella normale. Nel '400 quando fu completata la riconquista a scapito dei mori rimasero delle sacche di musulmani e ebrei che furono costretti ad espatriare o a convertirsi, veramente o fittiziamente. Nei fatti intere comunità di musulmani e ebrei continuarono a esercitare la propria religione e vennero soprannominati moriscos o marrani.
L'inquisizione colpiva gli eretici, e quindi cadevano sotto il suo giudizio quanti si erano convertiti al cristianesimo, facendo una pulizia etnico confessionale. La spagna diventa così compattamente cattolica.
Qualunque organizzazione militare a favore della fede era detta crociata, dalle lotte contro glie ebrei a quelle dei cavalieri teutonici contro il paganesimo.
570-632 vive Maometto, in pochi anno vengono conquistati grandi territori.
Gli arabi ottengono subito da maometto un inquadramento militare. Conquistata la penisola arabica dal medio oriente arrivano all'africa mediterranea, mentre non si sapeva che stava espandendosi una nuova religone monoteista.
In quei territori l'occupazione islamica era vista come una liberazione dal potere opprimente di costantinopoli. Ne nasce l'idea della razza islamica che si contrappone rispetto al paganesimo e obbliga a lla conversione o alla messa a morte. Per i cristiani e gli ebrei, in quanto seguaci del libro, era riconosciuta qualche validità. Erano essi infatti tollerati ma subordinati ai musulmani, la loro condizione era detta Dimmitudine. I dimmi dovevano pagare una tassa personale detta testatico. Ma erano soggetti alla loro legge, non alla sharia. Cominciano le conversioni per non pagare il testatico.
Ogni volta che sorgevano dei problemi i cristiani ed ebrei erano additati a colpevoli, quindi la tolleranza maggiore sta nella dimmitudine che però nei fatti poneva la condizione degli ebrei non diversa da quella occidentale.
L'islamismo introduce poi il principio che toglie la libertà religiosa, i musulmani non possono convertirsi altrimenti sono messi a morte.
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